lunedì 11 aprile 2011

Malinconia

lunedì 11 aprile 2011 1
Caro Lei, ho ritrovato un ricordo dietro al letto...

"Pioggerellare cheto
in un mattino spento
distante dal vivere
un sonno lucente
Largisce mestizia
dolce e cara
al mio essere
cupo e piangente"

14/12/2005 1.50

giovedì 10 giugno 2010

Zero

giovedì 10 giugno 2010 1
Caro Lei, oggi m’è preso di scegliere un simbolo che possa esprimere al meglio me stesso e il modo di essere e di pensare, beh infine ho deciso che il mio simbolo è nulla. Volendo disegnarlo per poterlo comunicare non potrei far altro che tracciare uno Zero, inteso non come numero, ma come assenza di valore, cioè nessun simbolo. Come dice? Crede che abbia fallito la mia ricerca? E perché? Perché sono giunto ad un simbolo che non rappresenta qualcosa? Si sbaglia! Il mio simbolo li esprime tutti! Perché il Nulla è come il Tutto. Mi spiego. Se considerassimo il Tutto, qualunque cosa pensabile, saremmo di fronte ad un insieme indefinito che comprende ogni elemento dell’universo, ovvero non mancherebbe nulla. Ciò significa che non potrei pensare che manchi Qualcosa. Solo il pensare a Qualcosa che manchi o che sia compresa farebbe vacillare il concetto del Tutto; dunque nel tutto il Qualcosa non esiste.
Se non esiste Qualcosa allora siamo di fronte al Nulla. Dunque il Tutto è come il Nulla. Capisce?


Caro Cyrano, c’è Qualcosa che non mi convince in Tutto quello che Lei ha detto. Per dirla tutta, del suo ragionamento non c’ho capito Nulla.

sabato 8 maggio 2010

Perfetti in ogni occasione!

sabato 8 maggio 2010 0
Come ogni sera, dopo cena, sedeva per rivedere dei conti, scrivere delle lettere e sbrigare altre faccende che non era riuscito a concludere durante il giorno. Faceva tardi, quasi sempre, ogni mattina il primo impegno era sempre prestissimo e non conosceva domenica già da un bel pezzo.

Questa crisi, mi distrugge! Diceva. Se solo fossi più capace. Se fossi più sicuro di me. Se non volessi fare tutto da solo. E così via in una sequela infinita di lamentose giustificazioni che si dava, tra sé e sé, prima di addormentarsi.

Era un uomo nervoso, con poca autostima e un atavico disagio sociale in contrasto con una spiccata voglia di socievolezza. L’uomo desidera più ardentemente ciò che difficilmente è capace di raggiungere, diceva a voce alta guardandosi allo specchio e non piacendosi per niente, ma difficile non significa impossibile, non è vero?

Spesso negli incontri di lavoro s’impappinava, era impacciato ed evitava di stringere la mano per via della sudorazione nervosa. Commerciava budelli per uso alimentare, da quelli per fare le salsicce a quelli sintetici dei colori più disparati per i semilavorati di formaggio. Faceva quasi tutto da sé. Non riusciva a dare ordini al suo unico dipendente, un ragazzo delle filippine che capiva poco l’italiano. Usava sempre frasi del tipo “Emh, scusa se te lo chiedo, ma io non riesco proprio a trovare il tempo, potresti caricare quegli scatoli sul furgone”, dare un ordine diretto era un ardire troppo grande per lui.

Quella sera arrivò a casa molto stanco e depresso, al lavoro si erano susseguite varie vicende che adesso gli tornavano in mente e gli provocavano un imbarazzo insopportabile. Alla consegna presso il caseificio Garrelli, la bellissima titolare della ditta era stata così carina con lui, sorridente e amichevole e lui s’era tutto imbarazzato. Proprio mentre lei lo invitava a prendere un caffè, se n’era andato via dicendo che aveva troppo da fare, che figura! Sicuramente l’avrà preso per un maleducato. Mentre scaricava gli scatoli per la Coop di viale Fassa un gruppo di magazzinieri parlottava e sa la rideva, lui in camicia e cravatta era tutto un bagno di sudore e non aveva trovato il coraggio di richiamarli per far scaricare loro la merce, come d’altra parte era previsto nell’accordo con il supermercato. Infine in ufficio, dato che aveva già, il più gentilmente possibile, chiesto al suo collaboratore di controllare i nuovi arrivi, non aveva avuto il coraggio di chiedergli di dare una pulita all’ufficio e così, anche se il filippino aveva finito da un pezzo, gli diede licenza di tornare a casa in anticipo e aveva fatto da sé le pulizie.

Quant’era stupido, un uomo senza spina dorsale, una nullità, uno scherzo della natura e via dicendo. Mentre si tormentava seduto in penombra sul suo divano, sudava. Era nervoso, cupo, sentiva caldo, si passava una mano sulla fronte, ma la inumidiva più quanto fosse già a causa del sudore smodato delle sue mani.

Che schifo, ti sudano le mani da fare schifo. Diceva. Erano umide. Dopo un po’ iniziò a notare delle goccioline tra i palmi delle mani. Andò a lavarsele, le asciugò per bene, ma non ebbe il tempo di uscire dal bagno che grondavano sudore. Le rilavò più volte, tenne in mano per un pezzo i ghiaccioli della borsa frigo, nel tentativo di convincere il suo corpo a smetterla. Niente. Camminava per casa gocciolando sudore. La sua camicia si inzuppò e levandosi la cravatta si accorse con stupore che era zuppa anche quella. Iniziò a spogliarsi. Si tolse una scarpa, era piena di sudore, dovette svuotarle nel lavandino. Sudava da tutte le parti, la testa, il collo, le gambe, il culo. Indossò l’accappatoio e s’asciugò per bene, finché tutti i centimetri quadrati della super assorbente spugna furono zuppi e l’accappatoio divenne pesantissimo e grondante di sudore anch’esso.Si guardò allo specchio e inorridì. Si stava prosciugando. Il suo viso paffuto quasi non c’era più e i suoi occhi sembrano voler venire fuori dalla orbite. Se non smetteva di sudare si sarebbe sciolto. Doveva trovare una soluzione.

Alle 8.30, come ogni mattina, il suo inserviente filippino si presentava al magazzino. Solitamente apriva lui perché il suo titolare era già in giro per le consegne, ma quella mattina trovò aperto. Entrò e vide un gran caos di scatoli sventrati e merce ovunque. I ladri! Pensò atterrito. Corse verso l’ufficio per telefonare al capo. Spalancò la porta e si precipitò dentro, ma si arrestò terrorizzato e cacciò fuori un urlettino da soprano spacca timpani! Il suo volto sgomento si contorceva in espressioni facciali a dir poco carnevalesche e i suoi occhi umidi e tremanti fissavano il suo capo che seduto in poltrona a sua volta lo guardava. Era diventato una enorme salsiccia irregolare, una sorta di bambolotto gigante.
Per evitare di sciogliersi, la notte prima era corso in magazzino e assemblando budello su budello aveva costruito intorno al suo corpo una pelle impermeabile. Adesso era un ammasso d’acqua dentro un budello per salsicce, ma la cosa, stranamente, lo divertiva non poco: lo slogan della ditta da adesso sarebbe stato più che appropriato!

“Budelli ilCyrano, perfetti in ogni occasione!”

sabato 3 aprile 2010

Un mezzo guscio d'uovo

sabato 3 aprile 2010 1
Ho un mezzo guscio d’uovo, piccolo, delicato. Lo tengo in un ciotolina decorata. Temo che si possa rompere, ancor di più.

Un mezzo guscio d’uovo è una storia sorda. È il sommo sforzo.
Un mezzo guscio d’uovo è il principio di una sofferenza e l’epilogo di una fatica. È la dolce e assurda vita.

Sboccia un fiorellino, giallo, mentre la cerco. Un pettirosso sfreccia sfiorando il gambo, cerca un rametto, un paglietto o uno spago. Intreccia una casa che è una culla, un rifugio segreto. Non ci metterà un giorno, non sarà mai perfetto, ma lui non molla mai e intreccia. Ogni pioggia o giornata ventosa il nido si sfalda e il pettirosso rappezza. Se non fosse importante, forse d’inverno, una bufera lo farebbe crollare, gettandolo a terra. Ma, tra i rami, ben saldo, il letto è piantato, certo non è perfetto, ma migliora dopo ogni tormenta.

In due, al riparo, vivono cullando un guscio. È una lotta, è un’attesa, è una crescita lenta. Danza una foglia, una lacrima scende. Il guscio si spezza, è la resa. Bianco e silenzioso per mesi ha atteso, senza mai rivelare ciò che custodisce. È giunta, dunque, l’immane fatica, tra grida e pianti viene alla luce il destino.

Un mezzo guscio d’uovo trema tra le mie mani. Lo porterò con me, finché sarà necessario.
È così importante che per custodirlo ho fabbricato uno scrigno. Il mio mezzo guscio d’uovo contiene tutto me stesso.

lunedì 25 gennaio 2010

La zia Lillina

lunedì 25 gennaio 2010 1
Quella domenica faceva fresco. Per tutte le feste aveva fatto bello, ma ormai il cielo s’incupiva di nuvole e il sole scaldava a fatica. In auto però si stava bene e la giornata sembrava ugualmente una giornata domenicale, anche senza il sole. Sì perché da queste parti se la domenica non fa bello la gente si offende. E’ un affronto, una domenica con i nuvoloni! Che porcheria! Io sorrido, dovrebbe viverlo un po’, la gente di qua, il tempo che fa nella grande città. Magari si offenderebbe meno se il sole ogni tanto decide di riposarsi un po’.

Andavamo a trovare la cugina Lena e la zia Lillina, in paese. Mentre guidavo, ripensavo a quando eravamo bambini, io e Lena giocavamo in campagna e correvamo giù dal colle verso la valle, a grandi balzi sprofondavamo i piedi nella terra arata inzaccherandoci tutti e non ci fermavamo prima di giungere in fondo. Poi di filata correvamo fino alla gebbia e importunavamo le povere oche fino a sera, finché la voce della zia Lillina, dal balcone, lontano, ci intimava di ritornare.

Che bello essere di nuovo qui, seduto su questi divani, in questo salotto pieno di cose. Lena ci serve il té, com’è cambiata. Anche Zia Lillina è cambiata, è cambiata moltissimo, è anziana e non ci sta più con la testa. Lena bada a lei tutto il giorno, ci racconta che la zia si è chiusa nella sua stanza, in lacrime. Si duole perché Arturo, il suo grande amore, è partito per la guerra stamane. Lena ride mentre ce lo racconta, io non ci riesco. Prima di sposare lo zio, pare che la zia avesse amato questo Arturo e, chissà per quale motivo, oggi riviveva i momenti di quell’amore.

Chiacchieriamo del più e del meno sorseggiando il tè, io le racconto della grande città, dei suoi cento grattacieli, dei suoi mille negozi, dei milioni di persone che ogni giorno la vivono. Lena ci ascolta, fa qualche domanda, poi prende un tovagliolo di stoffa ricamata e si pulisce le labbra. Io la guardo e per un attimo smetto di raccontare, osservo il suo volto, la sua gicchetta di lana bianca e la sua gonna a costine. Poi osservo la stanza, con i suoi tappeti colorati e le sue tende ai finestroni di legno, i quadri a olio, le fotografie, la coppia di etagere ai lati della porta, tutti quegli strani soprammobili che da bambino catturavano la mia curiosità.

Sembra che nulla sia cambiato, a parte me, forse. Ahh! Un grido irrompe nella stanza. Ahh! Urla la zia Lillina. Che pena! Erano già quattro mesi che non scriveva, che pena che avevo, ma oggi è arrivata questa! Che pena che ho avuto… Ci mostra una lettera, la stringe al petto, la carta è ingiallita e la calligrafia è d’altri tempi. Lena balza in piedi, mamma! Dove l’hai presa? Dove la tenevi? Ma la zia non ha occhi che per la lettera, cade su una poltrona con le braccia in avanti, la gonna le si riempie d’aria e poi lentamente si sgonfia. Inizia a leggere la lettera. Gli occhi le brillano, tiene la bocca socchiusa e d’un tratto scoppia in lacrime. Sta bene! Dice che mi manderà una fotografia. Dice che più d’ogni altra cosa il suo cuore è in pena per me! Ohh Arturo mio… Mamma! Fa Lena. Mamma, calmati, non hai visto chi c’è? Hai visto chi ti è venuto a trovare? Mamma? Ma la zia Lillina, felice come una bimba, non ha orecchie che per le parole della lettera mentre la rilegge sussurrando. Balza in piedi e va via. Felice come non l’ho veduta mai.

Lena ci chiede scusa, ma mi sembra di dover chiedere io scusa poiché lei sente di chiederne a me. Lena ci racconta che prima di stamattina non aveva mai sentito parlare di questo Arturo e che non era sicura che fosse esistito. Però quella lettera, Lena non ne conosceva l’esistenza, chissà dove la teneva nascosta. Però è strano, ma che fine avrà fatto quest’Arturo. Di certo lo zio non ne sapeva nulla, a quei tempi era sconveniente che dopo un fidanzamento ne seguitasse un altro. Poi in paese. Chissà se quel pover’uomo…

Si ode uno sparo. Poi più nulla. Si ode uno sparo dalla strada. Balziamo alla finestra, ma per strada non c’è anima viva. Tutte le imposte sono chiuse, i negozi sono sprangati. Suonano alla porta. Ci guardiamo perplessi. Nessuno si muove. D’un tratto la porta del salotto si spalanca e zia Lillina entra di corsa. Si precipita alla porta, urla, chi è? Lettera per lei signora! Apre la porta e strappa dalle mani del soldato la busta. Chiude la porta senza salutare né ringraziare. Inizia a leggere, il suo volto si contrae, le sue labbra si stringono e le sue palpebre tremano. Noooo! Urla! Cade in ginocchio con la bocca aperta, è il volto del dolore, per un qualche secondo o forse per una vita non si sente nulla, poi un lamento tremendo squarcia ogni orecchio e ogni cuore. Urla, piange, picchia per terra, poi si calma, riguarda la lettera, poi urla di nuovo. Il suo volto è pieno di lacrime, trema. La povera zia si raggomitola per terra e strappa a metà la lettera. E’ morto! Farfuglia. Me l’hanno ammazzato.

Mentre tramonta, i fari della mia auto illuminano le strade, sempre le stesse, da anni. Non riesco a smettere di pensare alla povera zia Lillina che oggi ha perso la sua cosa più cara, il suo grande amore Arturo, piangendolo per la seconda volta.

domenica 6 dicembre 2009

Buoni propositi

domenica 6 dicembre 2009 1
Così, mentre percepivo un rivolo di bavetta che colava lentamente sul cuscino avvertii quella sensazione di mancamento che si ha quando qualcuno siede sul tuo letto mentre dormi. Nonostante lo stato d’animo, in allerta, continuai ancora un po’ a sonnecchiare; iniziai a percepire me stesso e l’ambiente a me intorno.

Che strano rendersi conto che, chissà da quanto, stiamo soffrendo un gran caldo; e sì, fa caldo. Te ne stai sommerso da una montagna di coperte, accanto ad un termosifone acceso e sotto un enorme lucernaio che ti spara da ore la luce del sole in faccia e tu, imperterrito, ti limiti a strizzare ancor di più le palpebre per evitare che tutta quella luce possa illuminare la tua incoscienza, restituendoti ad una veglia desiderata, ma in fondo profondamente ripugnata.

Così, mi manca l’aria, diavolo devo scoprimi, si soffoca, e una voce mi chiama e pronuncia il mio nome con tono rassegnatamente amareggiato, ma in fondo divertito da un’insolita mania di invertire la mattina con la notte e il pomeriggio con la sera.
Diavolo, ma se lei è qui, accanto a me, sul mio letto, ma se era già uscita, poco fa, allora è di nuovo qui, insomma è già tornata, saranno le due. Mi sveglio del tutto e mi sollevo di scatto. No! Mi sono riaddormentato!

Lo so… Dice lei. Non cambierai mai; dai! Vestiti che ho messo su l’acqua per la pasta. Così dicendo si alza e prima di andar via mi porge un ritaglio di giornale. Consolati, mi dice, ma cerca di cambiar vita.
Perché mai mi dovrei consolare con un mezzo sudoku già risolto? Una voce nella mia testa mi importuna. Stupido! Mi dice, gira il ritaglio! Sveglia!
Giro il ritaglio, leggo d’un fiato e sorrido. Così quella sensazione di frustrazione per aver perduto un’altra mattinata, per essermi riaddormentato quando già mi ero alzato e lavato i denti, di non aver vissuto le ore più luminose della giornate e di far colazione con una pasta al pesto, bè questa frustrazione, per un po’ svanisce. Cosa ho letto? Lo vuol sapere? Era una celebre frase si Ennio Flaiano.

“Decise di cambiar vita, di approfittare delle ore del mattino. Si levò alle sei, fece la doccia, si rase, si vestì, gustò la colazione, fumò un paio di sigarette, si mise al tavolo di lavoro e si svegliò a mezzogiorno.”

Buona notte, scusi scappo a dormire, domani mi voglio alzare presto e sono già le… cavolo, ma sono passate le cinque!

domenica 18 ottobre 2009

La telefonata

domenica 18 ottobre 2009 2
Gli alberi del viale sono ancora verdi, ma a terra è pieno di foglie gialle. Le povere macchine, bofonchiose, le une verso le altre, si sporcano e invecchiano. Sono loro, le vere custodi del viale.

Io me ne vado tutto solo, senza in verità nulla da fare e m’imbroncio. Mi sembra di rivedermi, bambino, con lo stesso broncio. Avrei così tante cose da fare, così tanta gente da conoscere e conquistare e chissà quante avventure da vivere. Cammino imbronciato e ci rimugino, ma lo so già, in fondo in fondo, che così non sarà mai. Non avrò la vita che immagino di avere, le fantasiose storie che colorano il mio dormiveglia, non diventerò chi in cuor mio vorrei essere e la gente non mi piacerà mai, come da sempre non mi piace. Sarò sempre me stesso per tutta la vita. M’imbroncio.

Il comune ha fatto tagliare i rami, l’altro giorno, tutti noi abbiamo dovuto spostare le macchine e, per un po’, alcune le abbiamo accatastate ai lati, le altre come veniva, negli angoli, in doppia fila, davanti ai portoni e agli scivoli. La mia l’ho parcheggiata per metà sulle strisce pedonali e qualcuno, simpaticamente, facendo il buffone ha fatto finta di non vederla e c’ha camminato di sopra. Lei, poverina, era piena di polvere e adesso ha delle impronte sul cofano e sul tetto.

Così, imbronciato, me ne vado in giro e aspetto l’inverno. Il marciapiede si riempie di goccioline, tra poco pioverà, ma la gente di qui non ci fa mai caso, io, come d’abitudine, sbuffo e impreco come se fosse la cosa peggiore che possa accadere. Non è che odi la pioggia, è che mi da fastidio una giornata senza sole.

La mia macchina ha un grosso graffio sulla fiancata. Non l’ho fatto io, forse, ce l’ha e basta. E’ piccola, ma è rossa, cioè quasi, è bordeaux. Mi ci appoggio e la fisso, per un po’. Quante avventure e quanta vita c’ho vissuto dentro. Viaggi, code, litigi, corse e divertimenti. Se potessi me la porterei su fino in casa anziché lasciarla qui tutta sola. Però. E va beh!

Con un colpo di reni mi rimetto in marcia, ma un tonfo sordo mi prende alle spalle, mi volto di scatto e rimango allibito, è come mi era parso, cavoli, mi si è staccato il culo. La sensazione è stata così atipica che per i primi istanti non ho potuto crederci, è stato il tonfo che mi ha convito. Mentre mi rimettevo eretto ho sentito che il culetto rimaneva ben saldo lì dov’era piazzato, difatti dalle gambe e dalla schiena s’è proprio staccato. Lo raccolgo immediatamente, ma cavoli quanto pesa un culo, lo usiamo come cuscino ma non è certo una piuma. Oltre al peso, che poi non è così eccessivo c’è che adesso ho un culo in mano, non me ne posso andare certo in giro con tale mercanzia, dunque convengo di doverlo lasciare in macchina e così faccio.

Vado per il viale a passo spedito, devo arrivare a casa e cercare una soluzione. Che sfiga, cavoli, ho bisogno d’aiuto. Potrei chiamargli, ma è meglio di no, credo. In fondo non serve, sono un adulto, no? Posso cavarmela. Sì, posso, magari un consiglio però sui fatti della vita …

Arrivo a casa affannato e affranto, che problema, come faccio, non posso neppure mettermi seduto. A pancia sotto sul divano, dovrei pensare a risolvere i miei problemi, magari recuperare il culo con una sacca e poi con del mastice tentare di riattaccarlo, ma che tipo di mastice? Vorrei un consulto. Invece sto lì come un cretino e m’imbroncio. Agire! Agire! Ci vuole coraggio, fare e non frignarsi addosso. Niente da fare, m’imbroncio nuovamente.

Dopo un’ora di inutili commiserazioni, finalmente mi scuoto e mi rimetto in piedi. Le suole delle scarpe non toccano terra che un brivido mi passa lungo la schiena. Caspiterina che sensazione di leggerezza. Dimmi che non è vero! Invece lo è. Splattata come gelatina la mia pancia è rimasta sul divano. Ma che cavolo succede, parca sorte!

Tento di rimontarla ma scivola via e non c’è specie di attaccarla. La cosa si fa grave, ma sono solo, ce la devo fare. Cosa farebbe lui? Lui saprebbe cosa fare. Non ci riesco, non resisto, il mio broncio si tramuta in pianto e scappa una lacrima. Niente lacrime! Sii uomo! M’asciugo con la mano in tutta fretta, ma, ahimè, quanto sono maldestro! Strofino così forte che tiro giù il naso, lo scaglio per terra e ci salgo sopra per sbaglio, oddio che guaio, basta, non resisto, in fondo mi manca, sono due settimane, ce l’ho con lui, ma ce l’ho più con me, me ne sto imbronciato e faccio un bel niente, passo le giornate senza concludere nulla perché poi la sera non ho lui a cui raccontarlo, è ora di finirla, gli voglio bene, se non lo fai lui lo faccio io, in fondo cos’è un litigio? E’ solo un litigio! Basta gli telefono, ne ho bisogno.

- “Pronto?”
- “Ciao, babà…”
- “… ciao, sei raffreddato?”
- “…è una lunga storia…”

sabato 19 settembre 2009

A presto

sabato 19 settembre 2009 1

Da che c’era, a che non c’era più. Così diceva. E piangeva.


Piangere però non serviva a niente. Cioè, non serve in questi casi. Così terribile, la vita. È crudele. La morte non è mai serena.


Era quasi guarita, cresceva in fretta. Pensavo. E la gola mi si strozzava.


Piango perché le volevo bene. Gliene volevamo tutti. Era così carina, così simpatica. Il destino è incomprensibile.


Li ho lasciati in lacrime. Comunicava al telefono. È capitata una disgrazia.


Forse è stato quello là. Guarda caso aveva visto l’incidente. Se avessimo, se non avessimo. Arrabbiarsi ed incolpare allontana il dolore, per un po’.


L’ha riconosciuta. Mi raccontava. L’ha seppellita lui.


Non dovevo permetterglielo. Lui, però, forte nel suo immenso soffrire, non poteva esimersi dal suo compito.


La vita addolcisce i duri, tempra i coraggiosi, insegna ai leoni e punisce i pavidi.


Ci si affeziona in un giorno e si ricorda per sempre.


A presto, Amelie.

giovedì 10 settembre 2009

Che dormita

giovedì 10 settembre 2009 2

Il tutto è un po’ strano, lo so, ma le spiego, dal principio, magari a lei non parrà così strano.


Visto che, dopo tanto lavorare e correre, alla fine ho rispettato tutti i tempi e tutte le scadenze, visto che, oltre a concludere tutto ciò che dovevo fare, ho completato anche delle attività extra, finalmente, dopo giorni di fatica e zero tempo libero, torno a casa che sono ufficialmente in ferie. Andando a letto mi dico, domani si ronfa! E dicendolo mi strofino le mani sorridendo compiaciuto, arraffo l’odioso radio-orologio e digito una più rilassata sveglia, ma sì, domani mi alzo tardi, facciamo alle nove! Oops, ho messo alle nove e nove, va beh lascio così. Ma come! L’avevo già impostato alle nove! Alle nove! Stupida sveglia, alle nove! Dopo aver trafficato un po’ con la sveglia mi addormento beato a metà serata. Riposo.


Che ronfata! Le dico, la migliore della mia vita. Apro gli occhi che la radio sbraita e ci rompe con fesserie inaudite, la stanza è piena di luce! Spengo la radio. Cavoli! Sollevandola scopro che il comodino è pieno di polvere, il vuoto lasciato dalla sveglia sembra un buco nel ghiaccio del polo. Che strano, penso, anche se magari non è così strano, visto che di far le pulizie non me ne passa da un pezzo. La sera prima, dice? No, non me ne ero accorto, era buio, ero stanco. Me ne sono accorto solo stamattina.


Mi alzo che ho una fame! Che stupido, ma ho cenato ieri sera? Mi faccio un caffè e mangio una merendina. Ma che fame! Ne mangio un’altra. Lo stomaco brontola fortissimo, fa paura. Mangio tutto il pacco e due confezioni di cracker. Che strano, forse ieri non ho cenato, ho cenato? Non mi ricordo. E che vuole, ero stanco. Mangio anche un gelato.


Vado in bagno che sono un po’ più sazio e un po’ più sveglio da rendermi finalmente conto che qualcosa, in me, non va. Mi guardo allo specchio e rimango impietrito. Sono stati giorni pesanti, non ho avuto molto tempo per me stesso, ma ridursi così. Ma come ho fatto. E nessuno mi ha detto niente, che cari a lavoro, o forse che stronzi? Avrebbero dovuto dirmelo che sembro l’uomo di Neanderthal. Ho una barba lunghissima, ma da quanto tempo non mi rado? Da lunedì, forse. Beh, forbici e rasoio e passa una buona ora, inoltre puzzo un bel po’ e mi faccio un bagno. Perdo del tempo per riempire la vasca perché l’acqua esce sporca, questi tubi non li scarico da giorni, diavolo come è sporca. Vede, la barba era già un indizio, ma io ancora non mi ero reso conto, che strano.


Esco di casa tutto profumato ed incontro la portinaia che mi fa la festa! Ma dove è stato? Non l’ho più vista! Mi è mancato! C’è un “po’” di posta per lei. Ed io, felice di non avere fretta per poter stare a parlare con la cara portinaia, rispondo, ho lavorato tantissimo! Guardi, cara signora, neppure un minuto libero! Anche lei mi è mancata! Caspita quanta posta, ma è sicura che sia tutta per me? La portinaia mi racconta che è stata in vacanza al mare, con la sorella, che c’era tanta gente e la sera i giovani facevano dei festini in spiaggia. E lei, quest’anno solo lavoro? Ma no, le dico. Sono in ferie per quasi tutto Agosto, mi farò un bel giro.


Lo so, lo so, è quel che ha detto pure la portinaia, Agosto? Vorrà dire Settembre. Ma no, le dico Agosto. Mi prende in giro, Agosto è passato! E così via. Lo so, non mi faccia ripetere tutto dall'inizio. Stamattina cadevo davvero dalle nuvole. È strano, ne conviene? Corro a comprare il giornale per scoprire che è davvero Settembre. Che strano. Non le sembra così strano? No? Ma è un mistero! E' passato più di un mese! E' ovvio? Dice? Perchè? Vado a controllare.


Dunque, ho controllato, ha ragione lei, ieri, cioè quarantaquattro giorni fa, oltre ad impostare la sveglia alle 09:09 l’ho impostata per giorno 09/09/09! Ma è strano comunque, come ho potuto dormire così tanto! Mi addormento il 28 Luglio e mi sveglio il 9 Settembre!


Lei dice? Ma sì, forse avevo un po' di sonno arretrato.




Dovrei lavorare di meno?

Non si preoccupi, nel frattempo sono stato licenziato per inadempienza.

venerdì 26 giugno 2009

Gli uccellini

venerdì 26 giugno 2009 10

Ma quando inizia, inizia! Questo periodaccio è iniziato ben in anticipo rispetto alle mie aspettative. Cavoli, ogni anno, l’avvicinarsi di luglio mi riempie la vita di così tante attività da non lasciarmi tregua. Ma io me ne frego e sto qui a parlare con lei! (Va beh dai, solo cinque minuti, poi scappo) Allora caro lei, è da tanto che non passavo, come sta? Mi fa piacere! No io non sto granché bene… e sì, le dicevo, è un periodaccio.


I giorni scorrono a ritmo irrefrenabile, l’operosità mi assale non lasciandomi neppure una sola ora d’aria. Casa mia rispecchia me stesso. Il mio libro, letto a metà, si impolvera sul comodino, le magliette usate bivaccano un po’ ovunque e i cartoni della pizza crescono nel camerino. Non ho più memoria neppure del mio sonno. Mi alzo, bagno, caffè e al lavoro. Lavoro, caffè, bagno e a letto.


Le notti si nascondono, dispettose. Vado a dormire che è già luce e mi sveglio che è sempre luce. Se cala la sera e mi distraggo un attimo, alzo lo sguardo che la sera è già mattina. Cavoli, almeno d’inverno la notte non mi sfugge, il buio non ha fretta, d’inverno. Ride? Mi prende in giro? La prego, sono serio, sarà lo stress.


L’unica parentesi, sono gli uccellini. Cosa c’è da ridere? Mi lasci dire. Ecco, le dicevo, gli uccellini. Quando chiudo gli occhi, stanco, sul mio cuscino, l’unica cosa che sento è il cinguettare allegro e impazzito degli uccellini. Lo lascio addormentandomi e lo ritrovo svegliandomi, mescolato al suono frenetico della vita cittadina. Per di più, abito proprio all’ultimo piano e una famigliola di piccioni tuba al di là della finestra, sento il frullare delle ali dei pulcini nel nido dentro la grondaia e i lucernai, aimè, sono sempre sporchi.


Il cinguettio è quello che più mi prende. Ma cosa diavolo avranno, gli uccellini, da dirsi con tanta foga non appena sorge il sole. È una piazza immensa, tutti parlano con tutti, cantano urlano e si scambiano gli ultimi pettegolezzi in cinguettese. Cavoli, gli uccellini sono forse peggio della tv. Non fanno che ciarlare. Per fortuna, le dico in verità, che almeno loro, i loro guai, le loro banalità, i loro gossip, il loro insultarsi se qualche uccellino ha tagliato la rotta o si è poggiato nel ramo dove voleva poggiarsi quell’altro, tutto il loro baccanare, maledirsi, irridersi, raggirarsi, vendersi, corteggiarsi e tradirsi, insomma, per fortuna io non posso capirlo.

Buona notte.

sabato 13 giugno 2009

Che sole.

sabato 13 giugno 2009 8

Che sole, al parco. L’aria era buona, sapeva già d’estate. Ogni città ha il suo sapore, in ogni stagione è diverso. Ma se mi bendassero e mi portassero in gran segreto in una qualunque delle case in cui ho vissuto, saprei dire, senza errore, quale sia e in che stagione. È appartenenza. È ricordo di se stessi. Ci sono altri odori assolutamente unici e indistinguibili. Casa mia odora di legno e di polvere. Odora di vecchio e di tetto. Casa mia. Odora di tazze di tè e di umido. Odora di muschio e di fieno. Casa mia.


Al parco c’erano persone d’ogni sorta, ma non mi andava di osservare la gente. Pensavo ad altro. Ero distratto, ero lì per riflettere. Avevo da capire, da ragionare, da scoprire le mie più segrete verità. Ero lì per risolvere, nella mia mente, uno dei complicati problemi della mia vita. Chi non ne ha, non saranno certo i miei più complicati di altri, ma dato che sono i miei e non posso far finta di niente, si ingarbugliano e mi avvolgono, dunque a mio giudizio sono i problemi più complicati che esistano. Così avevo deciso che dovevo sedermi e riflettere. Data la bella giornata mi ero dato appuntamento al parco per sciogliere la questione. Giustappunto ero intento ad osservare le fronde degli alberi e di immergermi nei miei pensieri non mi riusciva. D’altra parte i miei pensieri sono proprio quelli. Penso a tutto e non penso mai a niente. Che sole quel giorno, odorava già d’estate.


Cavoli, devo concentrarmi, non perdere tempo, mi dicevo. Così chiusi gli occhi qualche secondo, in modo da staccarmi dall’ipnosi delle affascinanti fronde degli alberi. Già, pensavo, saprei riconoscere chissà quanti luoghi ad occhi chiusi. So esattamente, anche se a parole non saprei descriverlo, distinguere l’odore del cimitero al paese da quell’altro. Per di più potrei riconoscere la sua cappelletta, pensavo, fiutando il sapore aspro del mastice che ho usato per incollare la conchiglia…


Il fatto era complicato, ma di concentrarmi neanche per idea. Le verruche nei piedi mi dolevano e mi prudeva un po’ il naso. Così mi grattai più disinvoltamente possibile le narici. Non che mi fregasse di essere visto, in fondo la gente intorno a me di bon ton non ne aveva neppure per sbaglio. Qualche minuto prima un tizio aveva sputato a terra, due ragazzi schiamazzavano senza contegno, mi era passata di fronte una coppia e il lui aveva tutte le unghia ben tagliate ad eccezione di quella del mignolo. Un tizio ben vestito parlava al telefono sistemandosi tranquillamente il necessaire, una donna cicciottella esponeva un decolté fuori luogo e un vecchio in canottiera ne apprezzava mine de rien le proporzioni. Non è che tutto questo mi infastidisca o lo ripudi. Anzi, solitamente mi diverte e mi rallegra. È solo che quando mi sento abbattuto ed ho qualche problema da risolvere il mio senso di innata compostezza, di educazione e di convenienza prendono il sopravvento. Dunque quel giorno sarei stato anche in vena di schizzinoserie e francesismi, ma data la compagnia ed il prurito mi grattai tranquillamente. Nel grattarmi sentii l’odore della mia mano. Questo mi colpì, così mi rigrattai. Che buon odore, ma cos’è? Pensavo. Chissà cosa ho toccato da lasciarmi questo buon odore. Ah sì, adesso ricordo, è quel nuovo sapone per le mani. Devo ricordarmi di comprarlo di nuovo. È così buono da profumare tutto il bagno. Così che in questo periodo il bagno di casa mia odora di quel sapone.


Non sono mai stato bravo ad associare le cose agli odori. Non ricordo i nomi dei fiori né i nomi dei profumi. Ma so associare gli odori alle persone ed ai luoghi. So associare gli odori ai tempi. Io so per certo, che il suo odore è così unico e complesso da essere per me inconfondibile e misterioso, che per poterlo sentire tutto non basta una vita, perché ogni giorno è diverso. So che ogni volta che mi avvicino sento caratteristiche nuove, il suo odore si evolve pur rimanendo il suo odore. Il suo odore mi sorprende, il suo odore mi colpisce. Il suo odore è l'odore della sua pelle, dei suoi capelli e delle sue mani.


Ma a questo penserò un'altra volta, mi dissi, adesso ho da risolvere i miei problemi. Così mi sistemai sulla panchina e iniziai a riflettere.


Che sole, al parco. Dato che stavo pensando a quant’è buono quel sapone, decisi tutt’a un tratto di tornarmene a casa, d’altra parte non è che i miei problemi erano così complicati, quindi convenni che me ne sarei tornato a casa e mi sarei lavato le mani.

domenica 31 maggio 2009

Mah!

domenica 31 maggio 2009 13

Solo a volte, si sente. A volte non si sente. Però, quando capita di sentirlo è insopportabile. Un rumore di carta accartocciata. Si amplifica a dismisura e riempie le orecchie e la mente. Non senti più i tuoi pensieri. Non senti più te stesso. Affiora un senso di panico. Allora, come per difesa, dici qualcosa, qualunque cosa. Canticchi un motivo oppure sospiri. Ognuno ha la sua difesa. Mio nonno, per esempio, inspirava forte ed enunciava, con voce ferma, Mah!

Io dico la prima cosa che mi passa per la testa, trallalero, ad esempio, oppure spesso dico diavolacci! Ci si sente, io sento la mia voce, sento me stesso e mi distraggo. Appena distratto torna tutto alla normalità, la carta straccia non scrocchia più.

A lei non capita? Che ne so, di ripensare a qualcosa che le da fastidio, un evento della sua vita in cui ha fatto una brutta figura o non si è comportato come avrebbe dovuto. No? Non le è mai capitata alcunché di cui non vuole avere ricordo? Per la quale sente l’inevitabile bisogno di cambiare pensiero se, per caso, qualcosa gliela riporta alla mente? No? Bé, non ci credo.

Diavolacci!

sabato 30 maggio 2009

Il metrò

sabato 30 maggio 2009 6

L’annuncio riportava in grassetto dei requisiti singolari, cercavano qualcuno disponibile a viaggiare, buon camminatore e capace di orientarsi ad occhi chiusi. Non è che fossi certo di avere quelle qualità, piuttosto mi spinse la curiosità di scoprire di cosa si trattasse. Non c’era alcun numero di telefono o indirizzo a cui rispondere, era solo indicata una convocazione per le 17.30 di un giovedì presso il chiosco dei gelati nelle vicinanze della fermata Montessori del metrò. Questo fatto, ancor più strano del precedente, anziché farmi pensare che si trattasse di un qualche scherzo, accrebbe ulteriormente la mia curiosità.

Cercai sulla mappa la fermata, non l’avevo mai notata prima. Qualche volta ero sceso a quelle precedente, spesso a quella successiva. Male che vada, pensai, conoscerò una nuova zona della città. Così, alle 16.30 di un giovedì, uscii di casa. Mi vestii bene, ma sportivo, indossai degli occhiali da sole scuri e, con in mano il bastone da passeggio ricordo di mio nonno, partii alla volta del quartiere. Anche se la mia era solo curiosità, mi sembrava come di star andando ad un esame e, dato che non volevo fare brutta figura, decisi di valutare le mie peculiarità. Salutata la portinaia uscii per strada, l’esperimento era semplice, visto che potevo benissimo essere disponibile a viaggiare ed ero, senza dubbio, un buon camminatore, mi rimaneva di appurare se fossi anche in grado di orientarmi ad occhi chiusi. Così serrai gli occhi e feci qualche giro su me stesso. Via! Aiutandomi con il bastone individuai il muro del palazzo, era alla mia destra, direzione corretta, proseguire. Avendo spiato, spesso, i ciechi, sondavo l’aria a me intorno con il bastone e mi tenevo rasente al muro. Arrivai all’angolo e svoltai, nasceva un problema, adesso avrei incontrato le botteghe dei negozianti che, con le loro merci, invadevano spesso il marciapiede. Dovevo abbandonare il muro per evitarle. Allora mi spostai di qualche metro e iniziai a camminare lentamente. Sentivo i rumori della città intorno a me.

Auto, tram, una bicicletta, frena, suona il campanello. Una signora parla con la voce infantile, spiega ad un bambino, no, una bambina, che se la maestra ha detto così vuol dire che… Cammino, un clacson, da un citofono, chi è? Sono io, ovviamente. Una voce familiare saluta un tale, salve dottore, sì, è la voce macellaio, caspita ho fatto già un bel po’ di strada. Qualche altro passo e un turbine di odori mi prende. Profumi freschi, frutta, albicocche! È il fruttivendolo! Devo ricordare di comprare le albicocche al ritorno. Se sono al fruttivendolo allora sono arrivato al semaforo. Aspetto. Non so se è verde o rosso. Ma io aspetto. Dopo un po’ si sente un rumore, un cicalino, sì è il segnale per i ciechi. Ecco, però, cavoli, adesso non so se il cicalino suona quando è verde o quando è rosso. Cavoli, cavoli. Rifletto, ascolto. Sento l’aria muoversi accanto a me, persone che mi sfrecciano accanto, sarà verde? Non sento macchine passare davanti a me, sarà verde. Passo. Il segnale aumenta di velocità, mi affretto, ho raggiunto il marciapiede, sono vivo, sorrido. Sento dei phon, il parrucchiere. Odore di pane, il panificio. Nessun suono e nessun odore, la banca. Oh che meraviglia, il gelsomino mi avvolge, è sbocciato finalmente! Al ritorno lo ammirerò, il fiorista. Qualche altro passo e non sento più niente, cosa c’è dopo il fiorista? Non ricordo. Continuo a camminare e non so più dove mi trovo, diavoli, mi devo concentrare. Finalmente sento qualcosa, un odore, mi fermo. È un odore noto, ma non comune, sa di qualcosa di plastico, forse di gomma. Lo conosco, cos’è? Ma sì! Sa di scarpa, di scarpe nuove, il negozio di scarpe. Qualche metro e un nuovo incrocio, passo svelto, supero il bar, l’enoteca e il libraio, finché l’odore di kebab mi dice di essere arrivato, vincitore, alla fermata del metrò. Apro gli occhi e scendo.

Sul metrò c’è gente di ogni sorta, odori dei più strani e rumori degni dei migliori libri di fantascienza, basta chiudere gli occhi un attimo e inizia una nuova avventura, ma dato che avevo fatto tardi, non mi abbandonai ad altri interessanti esperimenti. Me ne stetti concentrato bene stretto al passamano, tenendo l’occhio alla fermata per evitare di perdermela. Le fermate passavano, ad una ad una, e dato che ne mancavano ancora un po’ e il vagone era quasi vuoto decisi di sedermi. Solitamente resto in piedi, mi piace sentire le vibrazioni del convoglio, contrastare le sue accelerazioni e le sue curve, spostarmi di tanto in tanto per cambiare punto di vista, ma quel giorno volevo solo aspettare la mia fermata, dunque, da seduti, si aspettava meglio. Giunto a Montessori scesi, non c’erano altri passeggeri e la stazione era proprio deserta. Cercai l’uscita a feci le scale rapidamente. Sbucato in superficie mi ritrovai dinnanzi ad uno spettacolo, forse, mai visto.

Mi trovavo in un'enorme piazza, era buio, ma i lampioni illuminavano flebilmente qua e là. C’era un’enorme testa di granito distesa su una guancia e due obelischi egizi aprivano la via per un sentiero che si addentrava in una selva. Da un lato una vasta area era ricoperta di libri dalle copertine colorate, alcuni erano aperti, altri chiusi, altri impilati. Alle mie spalle dei grattacieli si affiancavano, lasciando tra essi uno spazio sufficiente per far passare al più una sola persona, visto da fuori sembrava un enorme labirinto. Un lupo grigio riposava sul ramo di un albero che sbadigliava visibilmente. Ad un altro ramo era legato un capo di una amaca, l’altro capo era tenuto in mano da una guardia londinese altissima. Sull’amaca se la dormiva della grossa un uomo grassissimo, di spalle. Mille altri oggetti e creature riempivano la piazza e ognuna di esse aveva qualcosa di familiare. Mi guardai attorno e trovai il chiosco dei gelati. Mi avvicinai, non c’era nessuno. Controllai l’ora, le 17.25, sono in anticipo. Aspettai cinque minuti osservando la città, meno male che il mio quartiere è più… normale, pensavo. Alle 17.30 in punto vidi spuntare dalla fermata del metrò un signore bassino con una tuta da lavoro e un cappellino. Portava degli occhialetti e reggeva sottobraccio una cartellina. Si avvicina e mi porge la mano, salve, mi dice, sono felice sia venuto.

Quando abbiamo fatto l’annuncio pensavamo di aver risolto questo piccolo inconveniente, dice, ma in realtà non ci eravamo accorti di esserci in mezzo tutti, dall’ingegnere capo al macchinista. Il lavoro è semplice se lei possiede i requisiti indicati nell’annuncio. Io rispondo che, da una buona mezzora sono certo di possederli, ma ancora non ho afferrato bene di cosa si tratta. Bè, dice lui, noi siamo il team di sviluppo della metropolitana, stiamo testando una nuova linea rapida che permetterà di raggiungere una piazza o una via anche se non si trova nella stessa città di partenza. Mi spiego meglio, lei ad esempio oggi ha preso la metro nel suo quartiere, poi è sceso alla fermata Montessori, in realtà sarebbe dovuto arrivare non alla piazza Montessori della sua città ma alla piazza Montessori di Roma. Cioè, ovviamente piazza Montessori non esiste né nella sua città né a Roma, ma l’abbiamo inventata per scopi di test. Capisce? Non proprio.
Mi spiega che tramite questa metro rapida potranno unire tutte le metro delle città italiane in un'unica grande metropolitana, basterà scendere alla fermata giusta! In questo modo tutte le grandi città italiane potranno cooperare e divenire una grande unica città. Così, ad esempio, la massaia torinese potrà andare a comprare la mozzarella a Napoli e poi le alici a Genova, l’imprenditore milanese potrà incontrarsi col ministro a Roma e dopo venti minuti con un cliente a Catania.
Capisco. Però abbiamo ancora un piccolo problemino, dice, per questo ci serve qualcuno che faccia i test. E quale sarebbe il problemino? Chiedo io. Vede, il fatto è che adesso sì, ci troviamo a Roma, ma nella Roma dei suoi sogni. Nel senso che arrivati alla fermata rapida ci si addormenta e si continua sognando. Io ho un sussulto. Cioè mi sta dicendo che siamo in un mio sogno? Tecnicamente sì, ma anche no. Cioè adesso stiamo condividendo lo stesso sogno, infatti, come può notare quel leone con due teste non appartiene al suo subconscio, è un mio sogno ricorrente. Abbiamo ragione di credere che il problema sia quasi del tutto risolto, ma occorre qualche altro test per esserne certi. Bene, dico io tagliando corto, ci penserò, ma adesso vuol dirmi come faccio a tornare indietro. Ecco, appunto le dicevo, i tre requisiti. Bé, ecco vede, lei sta dormendo probabilmente sul sedile della metro, adesso lei dovrebbe vagare nei suoi sogni in cerca di, diciamo se stesso, così da riprendere il controllo e svegliarsi. Se ci pensa un attimo è un’operazione semplice, lo facciamo tutte le mattine, soltanto che orientarsi nei propri sogni da cosciente è ben più complicato. Io so esattamente che per svegliarmi devo semplicemente infilare la mia testa nella bocca del leone di destra. Lei dovrà trovare la sua strada. Bene, con questo la saluto, mi raccomando però, ci faccia sapere cosa ha deciso! Così dicendo si avviò e, una volta infilata la sua testa nella bocca del leone di destra, svanì portandosi dietro anche i suoi sogni, il chiosco dei gelati e la fermata del metrò.

Iniziai a camminare nel mio sonno in cerca di un odore, un suono, un qualcosa che mi riportasse in me, maledicendomi duramente e imprecando contro il destino che, un’ora prima, non mi aveva fatto mettere sotto da una macchina mentre attraversavo come un folle la strada ad occhi chiusi.

giovedì 28 maggio 2009

Il barista

giovedì 28 maggio 2009 7
La sa una cosa? Oggi sono veramente stanco. Cioè, non che abbia fatto chissà che! È che questo caldo, questo periodo, tutto questo bere, stanca … Fosse già estate, sarebbe normale, in estate non ci si può sentire stanchi. Ma ecco, un Maggio così mi imbestialisce. Non dovrei? Ma io devo. Ho da fare tante cose entro Luglio, ma il tempo non mi è amico. Per di più non sembra essere amico di nessuno. Prenda oggi per esempio, sono entrato al bar volendomi prendere un caffè, ma poi ho pensato, un caffè? Con questo caldo! No, no. Allora ho ordinato un caffè shakerato. Il povero barista, che è cinese di nascita, d’aspetto e di usi, mi ha guardato così stupito che i suoi occhietti sono diventati tondi più dei miei. Lui, non potendo capirmi, ha chiesto, un caffè esplesso? E io, che sopporto poco il caldo e ancora meno il mettere in difficoltà la gente ho risposto, sì, ma colto!

lunedì 25 maggio 2009

L’effetto Nähtamatu

lunedì 25 maggio 2009 6

Aspettavo appoggiato ad un lampione di fronte all’uscita del metrò. Per terra c’era ogni sorta di spazzatura. Un elastico rosa con una stellina di plastica giaceva, sporco, su un foglio scritto a penna. Ai miei piedi, attaccata al lampione, una catena blu abbandonata. Le cicche di sigaretta riempivano il marciapiede come cartucce usate di un mitragliatore. Biglietti usati, un tappo, un calzino di neonato, una gomma da masticare, dei fazzoletti e uno sputo. Io me ne stavo appoggiato al lampione e aspettavo.

Ad ogni tremolio del terreno, seguivano dopo quaranta secondi, sciami di pendolari che riemergevano alla luce come formiche da un formicaio. Io, appoggiato, ne venivo avvolto, ogni volta, finché, disperso anche l’ultimo e attardato viaggiatore, rimanevo di nuovo solo con il mio lampione. Aspettavo da un po’, ma non mi dispiaceva, ad ogni nuovo arrivo ero avvolto da cento vite e poi rimanevo solo ed aspettavo ancora. Io, il lampione e lo sputo.

Una ragazza sudamericana, sale lentamente ondeggiando i fianchi abbondanti. Un signore africano sale gli scalini a tre a tre. Un’anziana signora porta in mano una biciclettina rosa con le rotelle. Due ragazzi con dei berretti salgono affiancati e non si parlano. Due signori, giacca e valigetta, escono di fretta aggiustandosi la cravatta. Una bambina dà una mano alla nonna che con l’altra mano regge la sua bicicletta. Segue una ragazza dai capelli chiari, vestita di bianco, con al braccio dei sacchetti. Un ragazzotto alto e magro con in mano una chiavetta, mi fissa, aspetta un minuto, poi guarda l’orologio, mi guarda ancora e poi seccato va via. Per ultimo arriva, per niente frettoloso, un ragazzo riccioluto che sale chino. Legge un libro dalla copertina di cartone e non riesce a smettere, è un libro che cammina. Finiti i gradini continua a camminare senza mai guardare ciò che gli sta attorno. Dopo venti passi o forse anche più, alza su gli occhi solo per un istante. Si ferma, si volta, torna indietro, svolta l’angolo e anche una pagina.

Trema il marciapiede e comincio a contare, trentotto, trentanove e quaranta. La prima è una ragazza con un coniglio al guinzaglio. Due ragazzini con lo zainetto. Un gruppo chiassoso e festeggiante sbuca, sbandierando il leone giallo dello Sri Lanka. Una vecchia col bastone compare sfoggiando occhiali da sole da fotomodella. Eccolo arriva, abbandono il lampione e gli vado incontro. Lo saluto dicendo, l’ho riconosciuta dalla foto sul volantino! E' un signore bassoccio, calvo al centro e con dei capelli lunghi e ondulati intorno. Ha dei baffoni alla ungherese e si presenta come signor tal dei tali. Ci incamminiamo verso il bar e lui accaldato si allenta la camicia. Seduti al tavolo ordiniamo tè freddo e intanto che aspettiamo, io mi metto comodo e lui inizia il suo show.

La mia ditta le produce da anni e mai come adesso hanno avuto più successo. I nostri clienti non si sono mai lamentanti, anzi! Chi compra una volta compra per sempre! L’idea è perfetta, brevettata. Il risultato è garantito, può starne certo. Io gli chiedo se ne ha mai venduti nel mio quartiere, lui mi dice di sì, a centinaia, ma ultimamente è stato in giro per promuoverlo nelle altre città, così adesso qui nel quartiere non vende da un po’, ma si rifarà di certo. È una bomboletta, vede? Dice. Anzi in realtà sono due. Ogni coppia di bombolette è univocamente legata, sicché abbinandone una di un’altra coppia nulla può farsi, il miracolo non avviene. Questa è una garanzia essenziale affinché il sistema funzioni, difatti funziona magnificamente. Non le vendiamo in larga scala per mantenere una sorta di anonimato. Non raccontiamo nei volantini come funziona, altrimenti la troppa informazione attirerebbe gli imbroglioni che, immediatamente, inizierebbero a trovare un sistema per aggirare l’effetto. Così vendo porta a porta, e chi compra non va in giro raccontandolo a chiunque, ne va del suo interesse. Ci servono il tè freddo e io ho qualche dubbio. Lui sottolinea, non sostituisce un antifurto! È solo un qualcosa in più. D’altra parte potrebbe già bastare, ma è sempre possibile per via teorica trovare una contro formula che annulli la prima. Sorseggio il tè e gioco col ghiaccio, mentre il venditore recita la sua parte. Ogni bomboletta è realizzata nei nostri laboratori indipendentemente dalle altre, così che il composto sia univoco, l’altra bomboletta, noi la chiamiamo antidoto, è realizzata al contempo con la prima e, come Eva con la costola di Adamo, possiede quell’ingrediente speciale che permette la reazione con la sola compagna. È così si ha l’effetto Nähtamatu, spruzzando leggermente il mezzo con la prima bomboletta, esso immediatamente svanisce.

Svanisce, sì, ha capito bene, diventa invisibile e immateriale, pur rimanendo dove lo si ha lasciato. Passandoci una mano attraverso non si percepirà la sua presenza, né osservando attentamente si potrebbe notare qualcosa. Tuttavia se, ad esempio, per ipotesi, la si attaccasse ad un gancio e la si issasse da terra, facendola svanire con la bomboletta il gancio non reggerebbe, improvvisamente, più alcun peso. Basta una spruzzatina del rispettivo antidoto che la si troverebbe di nuovo fluttuante, agganciata saldamente all’adesso di nuovo appesantito ipotetico gancio. È impossibile ricolorare durante l’effetto Nähtamatu né esiste alcuno strumento in grado di individuare l’oggetto. Solo chi ha invisibilizzato sa dove andare a spruzzare l’antidoto, è brevettaro, è testato, non si sa di nessuno che abbia forzato il sistema. Le dicevo, in conclusione, che però non è sostitutivo di un antifurto, in teoria è possibile aggirare l’effetto. Allora gli chiedo, un po’ spazientito, ma scusi allora? A che cosa servirebbe? Ma come non capisce? Risponde un po’ offeso, si immagini la scena, lei arriva con la sua bella bicicletta e la lega ad un palo. Passa un ladro, la vede, gli piace, gli basta un seghetto e la catena è saltata. I nostri concorrenti puntano sulle catene, rafforzandole, rendendole antitaglio e antifiamma. Noi invece facciamo un passo indietro, il ladro non vede la bici, che taglia a fare la catena? La catena, però, è necessaria, sia per star certi che in ogni caso la bici sia legata, sia per sapere dove la si è lasciata. Io lo guardo interdetto, forse ho capito, ma lui chiarisce sorridente, non si era mai chiesto prima d’ora perché in molti pali e lampioni ci siano abbandonate così tante catene colorate?

 
ilcyrano