giovedì 10 giugno 2010

Zero

giovedì 10 giugno 2010 1
Caro Lei, oggi m’è preso di scegliere un simbolo che possa esprimere al meglio me stesso e il modo di essere e di pensare, beh infine ho deciso che il mio simbolo è nulla. Volendo disegnarlo per poterlo comunicare non potrei far altro che tracciare uno Zero, inteso non come numero, ma come assenza di valore, cioè nessun simbolo. Come dice? Crede che abbia fallito la mia ricerca? E perché? Perché sono giunto ad un simbolo che non rappresenta qualcosa? Si sbaglia! Il mio simbolo li esprime tutti! Perché il Nulla è come il Tutto. Mi spiego. Se considerassimo il Tutto, qualunque cosa pensabile, saremmo di fronte ad un insieme indefinito che comprende ogni elemento dell’universo, ovvero non mancherebbe nulla. Ciò significa che non potrei pensare che manchi Qualcosa. Solo il pensare a Qualcosa che manchi o che sia compresa farebbe vacillare il concetto del Tutto; dunque nel tutto il Qualcosa non esiste.
Se non esiste Qualcosa allora siamo di fronte al Nulla. Dunque il Tutto è come il Nulla. Capisce?


Caro Cyrano, c’è Qualcosa che non mi convince in Tutto quello che Lei ha detto. Per dirla tutta, del suo ragionamento non c’ho capito Nulla.

sabato 8 maggio 2010

Perfetti in ogni occasione!

sabato 8 maggio 2010 0
Come ogni sera, dopo cena, sedeva per rivedere dei conti, scrivere delle lettere e sbrigare altre faccende che non era riuscito a concludere durante il giorno. Faceva tardi, quasi sempre, ogni mattina il primo impegno era sempre prestissimo e non conosceva domenica già da un bel pezzo.

Questa crisi, mi distrugge! Diceva. Se solo fossi più capace. Se fossi più sicuro di me. Se non volessi fare tutto da solo. E così via in una sequela infinita di lamentose giustificazioni che si dava, tra sé e sé, prima di addormentarsi.

Era un uomo nervoso, con poca autostima e un atavico disagio sociale in contrasto con una spiccata voglia di socievolezza. L’uomo desidera più ardentemente ciò che difficilmente è capace di raggiungere, diceva a voce alta guardandosi allo specchio e non piacendosi per niente, ma difficile non significa impossibile, non è vero?

Spesso negli incontri di lavoro s’impappinava, era impacciato ed evitava di stringere la mano per via della sudorazione nervosa. Commerciava budelli per uso alimentare, da quelli per fare le salsicce a quelli sintetici dei colori più disparati per i semilavorati di formaggio. Faceva quasi tutto da sé. Non riusciva a dare ordini al suo unico dipendente, un ragazzo delle filippine che capiva poco l’italiano. Usava sempre frasi del tipo “Emh, scusa se te lo chiedo, ma io non riesco proprio a trovare il tempo, potresti caricare quegli scatoli sul furgone”, dare un ordine diretto era un ardire troppo grande per lui.

Quella sera arrivò a casa molto stanco e depresso, al lavoro si erano susseguite varie vicende che adesso gli tornavano in mente e gli provocavano un imbarazzo insopportabile. Alla consegna presso il caseificio Garrelli, la bellissima titolare della ditta era stata così carina con lui, sorridente e amichevole e lui s’era tutto imbarazzato. Proprio mentre lei lo invitava a prendere un caffè, se n’era andato via dicendo che aveva troppo da fare, che figura! Sicuramente l’avrà preso per un maleducato. Mentre scaricava gli scatoli per la Coop di viale Fassa un gruppo di magazzinieri parlottava e sa la rideva, lui in camicia e cravatta era tutto un bagno di sudore e non aveva trovato il coraggio di richiamarli per far scaricare loro la merce, come d’altra parte era previsto nell’accordo con il supermercato. Infine in ufficio, dato che aveva già, il più gentilmente possibile, chiesto al suo collaboratore di controllare i nuovi arrivi, non aveva avuto il coraggio di chiedergli di dare una pulita all’ufficio e così, anche se il filippino aveva finito da un pezzo, gli diede licenza di tornare a casa in anticipo e aveva fatto da sé le pulizie.

Quant’era stupido, un uomo senza spina dorsale, una nullità, uno scherzo della natura e via dicendo. Mentre si tormentava seduto in penombra sul suo divano, sudava. Era nervoso, cupo, sentiva caldo, si passava una mano sulla fronte, ma la inumidiva più quanto fosse già a causa del sudore smodato delle sue mani.

Che schifo, ti sudano le mani da fare schifo. Diceva. Erano umide. Dopo un po’ iniziò a notare delle goccioline tra i palmi delle mani. Andò a lavarsele, le asciugò per bene, ma non ebbe il tempo di uscire dal bagno che grondavano sudore. Le rilavò più volte, tenne in mano per un pezzo i ghiaccioli della borsa frigo, nel tentativo di convincere il suo corpo a smetterla. Niente. Camminava per casa gocciolando sudore. La sua camicia si inzuppò e levandosi la cravatta si accorse con stupore che era zuppa anche quella. Iniziò a spogliarsi. Si tolse una scarpa, era piena di sudore, dovette svuotarle nel lavandino. Sudava da tutte le parti, la testa, il collo, le gambe, il culo. Indossò l’accappatoio e s’asciugò per bene, finché tutti i centimetri quadrati della super assorbente spugna furono zuppi e l’accappatoio divenne pesantissimo e grondante di sudore anch’esso.Si guardò allo specchio e inorridì. Si stava prosciugando. Il suo viso paffuto quasi non c’era più e i suoi occhi sembrano voler venire fuori dalla orbite. Se non smetteva di sudare si sarebbe sciolto. Doveva trovare una soluzione.

Alle 8.30, come ogni mattina, il suo inserviente filippino si presentava al magazzino. Solitamente apriva lui perché il suo titolare era già in giro per le consegne, ma quella mattina trovò aperto. Entrò e vide un gran caos di scatoli sventrati e merce ovunque. I ladri! Pensò atterrito. Corse verso l’ufficio per telefonare al capo. Spalancò la porta e si precipitò dentro, ma si arrestò terrorizzato e cacciò fuori un urlettino da soprano spacca timpani! Il suo volto sgomento si contorceva in espressioni facciali a dir poco carnevalesche e i suoi occhi umidi e tremanti fissavano il suo capo che seduto in poltrona a sua volta lo guardava. Era diventato una enorme salsiccia irregolare, una sorta di bambolotto gigante.
Per evitare di sciogliersi, la notte prima era corso in magazzino e assemblando budello su budello aveva costruito intorno al suo corpo una pelle impermeabile. Adesso era un ammasso d’acqua dentro un budello per salsicce, ma la cosa, stranamente, lo divertiva non poco: lo slogan della ditta da adesso sarebbe stato più che appropriato!

“Budelli ilCyrano, perfetti in ogni occasione!”

sabato 3 aprile 2010

Un mezzo guscio d'uovo

sabato 3 aprile 2010 1
Ho un mezzo guscio d’uovo, piccolo, delicato. Lo tengo in un ciotolina decorata. Temo che si possa rompere, ancor di più.

Un mezzo guscio d’uovo è una storia sorda. È il sommo sforzo.
Un mezzo guscio d’uovo è il principio di una sofferenza e l’epilogo di una fatica. È la dolce e assurda vita.

Sboccia un fiorellino, giallo, mentre la cerco. Un pettirosso sfreccia sfiorando il gambo, cerca un rametto, un paglietto o uno spago. Intreccia una casa che è una culla, un rifugio segreto. Non ci metterà un giorno, non sarà mai perfetto, ma lui non molla mai e intreccia. Ogni pioggia o giornata ventosa il nido si sfalda e il pettirosso rappezza. Se non fosse importante, forse d’inverno, una bufera lo farebbe crollare, gettandolo a terra. Ma, tra i rami, ben saldo, il letto è piantato, certo non è perfetto, ma migliora dopo ogni tormenta.

In due, al riparo, vivono cullando un guscio. È una lotta, è un’attesa, è una crescita lenta. Danza una foglia, una lacrima scende. Il guscio si spezza, è la resa. Bianco e silenzioso per mesi ha atteso, senza mai rivelare ciò che custodisce. È giunta, dunque, l’immane fatica, tra grida e pianti viene alla luce il destino.

Un mezzo guscio d’uovo trema tra le mie mani. Lo porterò con me, finché sarà necessario.
È così importante che per custodirlo ho fabbricato uno scrigno. Il mio mezzo guscio d’uovo contiene tutto me stesso.

lunedì 25 gennaio 2010

La zia Lillina

lunedì 25 gennaio 2010 1
Quella domenica faceva fresco. Per tutte le feste aveva fatto bello, ma ormai il cielo s’incupiva di nuvole e il sole scaldava a fatica. In auto però si stava bene e la giornata sembrava ugualmente una giornata domenicale, anche senza il sole. Sì perché da queste parti se la domenica non fa bello la gente si offende. E’ un affronto, una domenica con i nuvoloni! Che porcheria! Io sorrido, dovrebbe viverlo un po’, la gente di qua, il tempo che fa nella grande città. Magari si offenderebbe meno se il sole ogni tanto decide di riposarsi un po’.

Andavamo a trovare la cugina Lena e la zia Lillina, in paese. Mentre guidavo, ripensavo a quando eravamo bambini, io e Lena giocavamo in campagna e correvamo giù dal colle verso la valle, a grandi balzi sprofondavamo i piedi nella terra arata inzaccherandoci tutti e non ci fermavamo prima di giungere in fondo. Poi di filata correvamo fino alla gebbia e importunavamo le povere oche fino a sera, finché la voce della zia Lillina, dal balcone, lontano, ci intimava di ritornare.

Che bello essere di nuovo qui, seduto su questi divani, in questo salotto pieno di cose. Lena ci serve il té, com’è cambiata. Anche Zia Lillina è cambiata, è cambiata moltissimo, è anziana e non ci sta più con la testa. Lena bada a lei tutto il giorno, ci racconta che la zia si è chiusa nella sua stanza, in lacrime. Si duole perché Arturo, il suo grande amore, è partito per la guerra stamane. Lena ride mentre ce lo racconta, io non ci riesco. Prima di sposare lo zio, pare che la zia avesse amato questo Arturo e, chissà per quale motivo, oggi riviveva i momenti di quell’amore.

Chiacchieriamo del più e del meno sorseggiando il tè, io le racconto della grande città, dei suoi cento grattacieli, dei suoi mille negozi, dei milioni di persone che ogni giorno la vivono. Lena ci ascolta, fa qualche domanda, poi prende un tovagliolo di stoffa ricamata e si pulisce le labbra. Io la guardo e per un attimo smetto di raccontare, osservo il suo volto, la sua gicchetta di lana bianca e la sua gonna a costine. Poi osservo la stanza, con i suoi tappeti colorati e le sue tende ai finestroni di legno, i quadri a olio, le fotografie, la coppia di etagere ai lati della porta, tutti quegli strani soprammobili che da bambino catturavano la mia curiosità.

Sembra che nulla sia cambiato, a parte me, forse. Ahh! Un grido irrompe nella stanza. Ahh! Urla la zia Lillina. Che pena! Erano già quattro mesi che non scriveva, che pena che avevo, ma oggi è arrivata questa! Che pena che ho avuto… Ci mostra una lettera, la stringe al petto, la carta è ingiallita e la calligrafia è d’altri tempi. Lena balza in piedi, mamma! Dove l’hai presa? Dove la tenevi? Ma la zia non ha occhi che per la lettera, cade su una poltrona con le braccia in avanti, la gonna le si riempie d’aria e poi lentamente si sgonfia. Inizia a leggere la lettera. Gli occhi le brillano, tiene la bocca socchiusa e d’un tratto scoppia in lacrime. Sta bene! Dice che mi manderà una fotografia. Dice che più d’ogni altra cosa il suo cuore è in pena per me! Ohh Arturo mio… Mamma! Fa Lena. Mamma, calmati, non hai visto chi c’è? Hai visto chi ti è venuto a trovare? Mamma? Ma la zia Lillina, felice come una bimba, non ha orecchie che per le parole della lettera mentre la rilegge sussurrando. Balza in piedi e va via. Felice come non l’ho veduta mai.

Lena ci chiede scusa, ma mi sembra di dover chiedere io scusa poiché lei sente di chiederne a me. Lena ci racconta che prima di stamattina non aveva mai sentito parlare di questo Arturo e che non era sicura che fosse esistito. Però quella lettera, Lena non ne conosceva l’esistenza, chissà dove la teneva nascosta. Però è strano, ma che fine avrà fatto quest’Arturo. Di certo lo zio non ne sapeva nulla, a quei tempi era sconveniente che dopo un fidanzamento ne seguitasse un altro. Poi in paese. Chissà se quel pover’uomo…

Si ode uno sparo. Poi più nulla. Si ode uno sparo dalla strada. Balziamo alla finestra, ma per strada non c’è anima viva. Tutte le imposte sono chiuse, i negozi sono sprangati. Suonano alla porta. Ci guardiamo perplessi. Nessuno si muove. D’un tratto la porta del salotto si spalanca e zia Lillina entra di corsa. Si precipita alla porta, urla, chi è? Lettera per lei signora! Apre la porta e strappa dalle mani del soldato la busta. Chiude la porta senza salutare né ringraziare. Inizia a leggere, il suo volto si contrae, le sue labbra si stringono e le sue palpebre tremano. Noooo! Urla! Cade in ginocchio con la bocca aperta, è il volto del dolore, per un qualche secondo o forse per una vita non si sente nulla, poi un lamento tremendo squarcia ogni orecchio e ogni cuore. Urla, piange, picchia per terra, poi si calma, riguarda la lettera, poi urla di nuovo. Il suo volto è pieno di lacrime, trema. La povera zia si raggomitola per terra e strappa a metà la lettera. E’ morto! Farfuglia. Me l’hanno ammazzato.

Mentre tramonta, i fari della mia auto illuminano le strade, sempre le stesse, da anni. Non riesco a smettere di pensare alla povera zia Lillina che oggi ha perso la sua cosa più cara, il suo grande amore Arturo, piangendolo per la seconda volta.
 
ilcyrano