domenica 31 maggio 2009

Mah!

domenica 31 maggio 2009 13

Solo a volte, si sente. A volte non si sente. Però, quando capita di sentirlo è insopportabile. Un rumore di carta accartocciata. Si amplifica a dismisura e riempie le orecchie e la mente. Non senti più i tuoi pensieri. Non senti più te stesso. Affiora un senso di panico. Allora, come per difesa, dici qualcosa, qualunque cosa. Canticchi un motivo oppure sospiri. Ognuno ha la sua difesa. Mio nonno, per esempio, inspirava forte ed enunciava, con voce ferma, Mah!

Io dico la prima cosa che mi passa per la testa, trallalero, ad esempio, oppure spesso dico diavolacci! Ci si sente, io sento la mia voce, sento me stesso e mi distraggo. Appena distratto torna tutto alla normalità, la carta straccia non scrocchia più.

A lei non capita? Che ne so, di ripensare a qualcosa che le da fastidio, un evento della sua vita in cui ha fatto una brutta figura o non si è comportato come avrebbe dovuto. No? Non le è mai capitata alcunché di cui non vuole avere ricordo? Per la quale sente l’inevitabile bisogno di cambiare pensiero se, per caso, qualcosa gliela riporta alla mente? No? Bé, non ci credo.

Diavolacci!

sabato 30 maggio 2009

Il metrò

sabato 30 maggio 2009 6

L’annuncio riportava in grassetto dei requisiti singolari, cercavano qualcuno disponibile a viaggiare, buon camminatore e capace di orientarsi ad occhi chiusi. Non è che fossi certo di avere quelle qualità, piuttosto mi spinse la curiosità di scoprire di cosa si trattasse. Non c’era alcun numero di telefono o indirizzo a cui rispondere, era solo indicata una convocazione per le 17.30 di un giovedì presso il chiosco dei gelati nelle vicinanze della fermata Montessori del metrò. Questo fatto, ancor più strano del precedente, anziché farmi pensare che si trattasse di un qualche scherzo, accrebbe ulteriormente la mia curiosità.

Cercai sulla mappa la fermata, non l’avevo mai notata prima. Qualche volta ero sceso a quelle precedente, spesso a quella successiva. Male che vada, pensai, conoscerò una nuova zona della città. Così, alle 16.30 di un giovedì, uscii di casa. Mi vestii bene, ma sportivo, indossai degli occhiali da sole scuri e, con in mano il bastone da passeggio ricordo di mio nonno, partii alla volta del quartiere. Anche se la mia era solo curiosità, mi sembrava come di star andando ad un esame e, dato che non volevo fare brutta figura, decisi di valutare le mie peculiarità. Salutata la portinaia uscii per strada, l’esperimento era semplice, visto che potevo benissimo essere disponibile a viaggiare ed ero, senza dubbio, un buon camminatore, mi rimaneva di appurare se fossi anche in grado di orientarmi ad occhi chiusi. Così serrai gli occhi e feci qualche giro su me stesso. Via! Aiutandomi con il bastone individuai il muro del palazzo, era alla mia destra, direzione corretta, proseguire. Avendo spiato, spesso, i ciechi, sondavo l’aria a me intorno con il bastone e mi tenevo rasente al muro. Arrivai all’angolo e svoltai, nasceva un problema, adesso avrei incontrato le botteghe dei negozianti che, con le loro merci, invadevano spesso il marciapiede. Dovevo abbandonare il muro per evitarle. Allora mi spostai di qualche metro e iniziai a camminare lentamente. Sentivo i rumori della città intorno a me.

Auto, tram, una bicicletta, frena, suona il campanello. Una signora parla con la voce infantile, spiega ad un bambino, no, una bambina, che se la maestra ha detto così vuol dire che… Cammino, un clacson, da un citofono, chi è? Sono io, ovviamente. Una voce familiare saluta un tale, salve dottore, sì, è la voce macellaio, caspita ho fatto già un bel po’ di strada. Qualche altro passo e un turbine di odori mi prende. Profumi freschi, frutta, albicocche! È il fruttivendolo! Devo ricordare di comprare le albicocche al ritorno. Se sono al fruttivendolo allora sono arrivato al semaforo. Aspetto. Non so se è verde o rosso. Ma io aspetto. Dopo un po’ si sente un rumore, un cicalino, sì è il segnale per i ciechi. Ecco, però, cavoli, adesso non so se il cicalino suona quando è verde o quando è rosso. Cavoli, cavoli. Rifletto, ascolto. Sento l’aria muoversi accanto a me, persone che mi sfrecciano accanto, sarà verde? Non sento macchine passare davanti a me, sarà verde. Passo. Il segnale aumenta di velocità, mi affretto, ho raggiunto il marciapiede, sono vivo, sorrido. Sento dei phon, il parrucchiere. Odore di pane, il panificio. Nessun suono e nessun odore, la banca. Oh che meraviglia, il gelsomino mi avvolge, è sbocciato finalmente! Al ritorno lo ammirerò, il fiorista. Qualche altro passo e non sento più niente, cosa c’è dopo il fiorista? Non ricordo. Continuo a camminare e non so più dove mi trovo, diavoli, mi devo concentrare. Finalmente sento qualcosa, un odore, mi fermo. È un odore noto, ma non comune, sa di qualcosa di plastico, forse di gomma. Lo conosco, cos’è? Ma sì! Sa di scarpa, di scarpe nuove, il negozio di scarpe. Qualche metro e un nuovo incrocio, passo svelto, supero il bar, l’enoteca e il libraio, finché l’odore di kebab mi dice di essere arrivato, vincitore, alla fermata del metrò. Apro gli occhi e scendo.

Sul metrò c’è gente di ogni sorta, odori dei più strani e rumori degni dei migliori libri di fantascienza, basta chiudere gli occhi un attimo e inizia una nuova avventura, ma dato che avevo fatto tardi, non mi abbandonai ad altri interessanti esperimenti. Me ne stetti concentrato bene stretto al passamano, tenendo l’occhio alla fermata per evitare di perdermela. Le fermate passavano, ad una ad una, e dato che ne mancavano ancora un po’ e il vagone era quasi vuoto decisi di sedermi. Solitamente resto in piedi, mi piace sentire le vibrazioni del convoglio, contrastare le sue accelerazioni e le sue curve, spostarmi di tanto in tanto per cambiare punto di vista, ma quel giorno volevo solo aspettare la mia fermata, dunque, da seduti, si aspettava meglio. Giunto a Montessori scesi, non c’erano altri passeggeri e la stazione era proprio deserta. Cercai l’uscita a feci le scale rapidamente. Sbucato in superficie mi ritrovai dinnanzi ad uno spettacolo, forse, mai visto.

Mi trovavo in un'enorme piazza, era buio, ma i lampioni illuminavano flebilmente qua e là. C’era un’enorme testa di granito distesa su una guancia e due obelischi egizi aprivano la via per un sentiero che si addentrava in una selva. Da un lato una vasta area era ricoperta di libri dalle copertine colorate, alcuni erano aperti, altri chiusi, altri impilati. Alle mie spalle dei grattacieli si affiancavano, lasciando tra essi uno spazio sufficiente per far passare al più una sola persona, visto da fuori sembrava un enorme labirinto. Un lupo grigio riposava sul ramo di un albero che sbadigliava visibilmente. Ad un altro ramo era legato un capo di una amaca, l’altro capo era tenuto in mano da una guardia londinese altissima. Sull’amaca se la dormiva della grossa un uomo grassissimo, di spalle. Mille altri oggetti e creature riempivano la piazza e ognuna di esse aveva qualcosa di familiare. Mi guardai attorno e trovai il chiosco dei gelati. Mi avvicinai, non c’era nessuno. Controllai l’ora, le 17.25, sono in anticipo. Aspettai cinque minuti osservando la città, meno male che il mio quartiere è più… normale, pensavo. Alle 17.30 in punto vidi spuntare dalla fermata del metrò un signore bassino con una tuta da lavoro e un cappellino. Portava degli occhialetti e reggeva sottobraccio una cartellina. Si avvicina e mi porge la mano, salve, mi dice, sono felice sia venuto.

Quando abbiamo fatto l’annuncio pensavamo di aver risolto questo piccolo inconveniente, dice, ma in realtà non ci eravamo accorti di esserci in mezzo tutti, dall’ingegnere capo al macchinista. Il lavoro è semplice se lei possiede i requisiti indicati nell’annuncio. Io rispondo che, da una buona mezzora sono certo di possederli, ma ancora non ho afferrato bene di cosa si tratta. Bè, dice lui, noi siamo il team di sviluppo della metropolitana, stiamo testando una nuova linea rapida che permetterà di raggiungere una piazza o una via anche se non si trova nella stessa città di partenza. Mi spiego meglio, lei ad esempio oggi ha preso la metro nel suo quartiere, poi è sceso alla fermata Montessori, in realtà sarebbe dovuto arrivare non alla piazza Montessori della sua città ma alla piazza Montessori di Roma. Cioè, ovviamente piazza Montessori non esiste né nella sua città né a Roma, ma l’abbiamo inventata per scopi di test. Capisce? Non proprio.
Mi spiega che tramite questa metro rapida potranno unire tutte le metro delle città italiane in un'unica grande metropolitana, basterà scendere alla fermata giusta! In questo modo tutte le grandi città italiane potranno cooperare e divenire una grande unica città. Così, ad esempio, la massaia torinese potrà andare a comprare la mozzarella a Napoli e poi le alici a Genova, l’imprenditore milanese potrà incontrarsi col ministro a Roma e dopo venti minuti con un cliente a Catania.
Capisco. Però abbiamo ancora un piccolo problemino, dice, per questo ci serve qualcuno che faccia i test. E quale sarebbe il problemino? Chiedo io. Vede, il fatto è che adesso sì, ci troviamo a Roma, ma nella Roma dei suoi sogni. Nel senso che arrivati alla fermata rapida ci si addormenta e si continua sognando. Io ho un sussulto. Cioè mi sta dicendo che siamo in un mio sogno? Tecnicamente sì, ma anche no. Cioè adesso stiamo condividendo lo stesso sogno, infatti, come può notare quel leone con due teste non appartiene al suo subconscio, è un mio sogno ricorrente. Abbiamo ragione di credere che il problema sia quasi del tutto risolto, ma occorre qualche altro test per esserne certi. Bene, dico io tagliando corto, ci penserò, ma adesso vuol dirmi come faccio a tornare indietro. Ecco, appunto le dicevo, i tre requisiti. Bé, ecco vede, lei sta dormendo probabilmente sul sedile della metro, adesso lei dovrebbe vagare nei suoi sogni in cerca di, diciamo se stesso, così da riprendere il controllo e svegliarsi. Se ci pensa un attimo è un’operazione semplice, lo facciamo tutte le mattine, soltanto che orientarsi nei propri sogni da cosciente è ben più complicato. Io so esattamente che per svegliarmi devo semplicemente infilare la mia testa nella bocca del leone di destra. Lei dovrà trovare la sua strada. Bene, con questo la saluto, mi raccomando però, ci faccia sapere cosa ha deciso! Così dicendo si avviò e, una volta infilata la sua testa nella bocca del leone di destra, svanì portandosi dietro anche i suoi sogni, il chiosco dei gelati e la fermata del metrò.

Iniziai a camminare nel mio sonno in cerca di un odore, un suono, un qualcosa che mi riportasse in me, maledicendomi duramente e imprecando contro il destino che, un’ora prima, non mi aveva fatto mettere sotto da una macchina mentre attraversavo come un folle la strada ad occhi chiusi.

giovedì 28 maggio 2009

Il barista

giovedì 28 maggio 2009 7
La sa una cosa? Oggi sono veramente stanco. Cioè, non che abbia fatto chissà che! È che questo caldo, questo periodo, tutto questo bere, stanca … Fosse già estate, sarebbe normale, in estate non ci si può sentire stanchi. Ma ecco, un Maggio così mi imbestialisce. Non dovrei? Ma io devo. Ho da fare tante cose entro Luglio, ma il tempo non mi è amico. Per di più non sembra essere amico di nessuno. Prenda oggi per esempio, sono entrato al bar volendomi prendere un caffè, ma poi ho pensato, un caffè? Con questo caldo! No, no. Allora ho ordinato un caffè shakerato. Il povero barista, che è cinese di nascita, d’aspetto e di usi, mi ha guardato così stupito che i suoi occhietti sono diventati tondi più dei miei. Lui, non potendo capirmi, ha chiesto, un caffè esplesso? E io, che sopporto poco il caldo e ancora meno il mettere in difficoltà la gente ho risposto, sì, ma colto!

lunedì 25 maggio 2009

L’effetto Nähtamatu

lunedì 25 maggio 2009 6

Aspettavo appoggiato ad un lampione di fronte all’uscita del metrò. Per terra c’era ogni sorta di spazzatura. Un elastico rosa con una stellina di plastica giaceva, sporco, su un foglio scritto a penna. Ai miei piedi, attaccata al lampione, una catena blu abbandonata. Le cicche di sigaretta riempivano il marciapiede come cartucce usate di un mitragliatore. Biglietti usati, un tappo, un calzino di neonato, una gomma da masticare, dei fazzoletti e uno sputo. Io me ne stavo appoggiato al lampione e aspettavo.

Ad ogni tremolio del terreno, seguivano dopo quaranta secondi, sciami di pendolari che riemergevano alla luce come formiche da un formicaio. Io, appoggiato, ne venivo avvolto, ogni volta, finché, disperso anche l’ultimo e attardato viaggiatore, rimanevo di nuovo solo con il mio lampione. Aspettavo da un po’, ma non mi dispiaceva, ad ogni nuovo arrivo ero avvolto da cento vite e poi rimanevo solo ed aspettavo ancora. Io, il lampione e lo sputo.

Una ragazza sudamericana, sale lentamente ondeggiando i fianchi abbondanti. Un signore africano sale gli scalini a tre a tre. Un’anziana signora porta in mano una biciclettina rosa con le rotelle. Due ragazzi con dei berretti salgono affiancati e non si parlano. Due signori, giacca e valigetta, escono di fretta aggiustandosi la cravatta. Una bambina dà una mano alla nonna che con l’altra mano regge la sua bicicletta. Segue una ragazza dai capelli chiari, vestita di bianco, con al braccio dei sacchetti. Un ragazzotto alto e magro con in mano una chiavetta, mi fissa, aspetta un minuto, poi guarda l’orologio, mi guarda ancora e poi seccato va via. Per ultimo arriva, per niente frettoloso, un ragazzo riccioluto che sale chino. Legge un libro dalla copertina di cartone e non riesce a smettere, è un libro che cammina. Finiti i gradini continua a camminare senza mai guardare ciò che gli sta attorno. Dopo venti passi o forse anche più, alza su gli occhi solo per un istante. Si ferma, si volta, torna indietro, svolta l’angolo e anche una pagina.

Trema il marciapiede e comincio a contare, trentotto, trentanove e quaranta. La prima è una ragazza con un coniglio al guinzaglio. Due ragazzini con lo zainetto. Un gruppo chiassoso e festeggiante sbuca, sbandierando il leone giallo dello Sri Lanka. Una vecchia col bastone compare sfoggiando occhiali da sole da fotomodella. Eccolo arriva, abbandono il lampione e gli vado incontro. Lo saluto dicendo, l’ho riconosciuta dalla foto sul volantino! E' un signore bassoccio, calvo al centro e con dei capelli lunghi e ondulati intorno. Ha dei baffoni alla ungherese e si presenta come signor tal dei tali. Ci incamminiamo verso il bar e lui accaldato si allenta la camicia. Seduti al tavolo ordiniamo tè freddo e intanto che aspettiamo, io mi metto comodo e lui inizia il suo show.

La mia ditta le produce da anni e mai come adesso hanno avuto più successo. I nostri clienti non si sono mai lamentanti, anzi! Chi compra una volta compra per sempre! L’idea è perfetta, brevettata. Il risultato è garantito, può starne certo. Io gli chiedo se ne ha mai venduti nel mio quartiere, lui mi dice di sì, a centinaia, ma ultimamente è stato in giro per promuoverlo nelle altre città, così adesso qui nel quartiere non vende da un po’, ma si rifarà di certo. È una bomboletta, vede? Dice. Anzi in realtà sono due. Ogni coppia di bombolette è univocamente legata, sicché abbinandone una di un’altra coppia nulla può farsi, il miracolo non avviene. Questa è una garanzia essenziale affinché il sistema funzioni, difatti funziona magnificamente. Non le vendiamo in larga scala per mantenere una sorta di anonimato. Non raccontiamo nei volantini come funziona, altrimenti la troppa informazione attirerebbe gli imbroglioni che, immediatamente, inizierebbero a trovare un sistema per aggirare l’effetto. Così vendo porta a porta, e chi compra non va in giro raccontandolo a chiunque, ne va del suo interesse. Ci servono il tè freddo e io ho qualche dubbio. Lui sottolinea, non sostituisce un antifurto! È solo un qualcosa in più. D’altra parte potrebbe già bastare, ma è sempre possibile per via teorica trovare una contro formula che annulli la prima. Sorseggio il tè e gioco col ghiaccio, mentre il venditore recita la sua parte. Ogni bomboletta è realizzata nei nostri laboratori indipendentemente dalle altre, così che il composto sia univoco, l’altra bomboletta, noi la chiamiamo antidoto, è realizzata al contempo con la prima e, come Eva con la costola di Adamo, possiede quell’ingrediente speciale che permette la reazione con la sola compagna. È così si ha l’effetto Nähtamatu, spruzzando leggermente il mezzo con la prima bomboletta, esso immediatamente svanisce.

Svanisce, sì, ha capito bene, diventa invisibile e immateriale, pur rimanendo dove lo si ha lasciato. Passandoci una mano attraverso non si percepirà la sua presenza, né osservando attentamente si potrebbe notare qualcosa. Tuttavia se, ad esempio, per ipotesi, la si attaccasse ad un gancio e la si issasse da terra, facendola svanire con la bomboletta il gancio non reggerebbe, improvvisamente, più alcun peso. Basta una spruzzatina del rispettivo antidoto che la si troverebbe di nuovo fluttuante, agganciata saldamente all’adesso di nuovo appesantito ipotetico gancio. È impossibile ricolorare durante l’effetto Nähtamatu né esiste alcuno strumento in grado di individuare l’oggetto. Solo chi ha invisibilizzato sa dove andare a spruzzare l’antidoto, è brevettaro, è testato, non si sa di nessuno che abbia forzato il sistema. Le dicevo, in conclusione, che però non è sostitutivo di un antifurto, in teoria è possibile aggirare l’effetto. Allora gli chiedo, un po’ spazientito, ma scusi allora? A che cosa servirebbe? Ma come non capisce? Risponde un po’ offeso, si immagini la scena, lei arriva con la sua bella bicicletta e la lega ad un palo. Passa un ladro, la vede, gli piace, gli basta un seghetto e la catena è saltata. I nostri concorrenti puntano sulle catene, rafforzandole, rendendole antitaglio e antifiamma. Noi invece facciamo un passo indietro, il ladro non vede la bici, che taglia a fare la catena? La catena, però, è necessaria, sia per star certi che in ogni caso la bici sia legata, sia per sapere dove la si è lasciata. Io lo guardo interdetto, forse ho capito, ma lui chiarisce sorridente, non si era mai chiesto prima d’ora perché in molti pali e lampioni ci siano abbandonate così tante catene colorate?

venerdì 22 maggio 2009

Le piantecorrente

venerdì 22 maggio 2009 2

L’idea mi era venuta passeggiando lungo il viale. La bella stagione colorava l’aria con gli odori delle piante in fiore e gli uccellini rallegravano la vita cittadina sovrastando con il loro cinguettare persino i rumori delle macchine e i pensieri chiassosi della gente. I nuovi alberelli, voluti dall’amministrazione comunale, sbucavano regolarmente dai tubi colorati del piantadotto cittadino. Visto che in casa non avevo piante, decisi anch'io di contattare una di quelle nuove società di piantacorrente. Così, dopo una rapida telefonata con una simpatica centralista, che tra le altre mi promise uno speciale sconto come nuovo cliente, aspettavo impaziente l’arrivo dell’installatore. Alle due del pomeriggio citofonò un ragazzotto cicciottello e brufoloso con un bel cappellino verde madido di sudore. Lo faccio entrare e inizia subito a passare le tubature nelle intercapedini del palazzo. Finito l’allacciamento mi chiede dove desidero avere la mia piantacorrente e mi informa che, come nuovo cliente, ho in regalo anche una seconda pianta da frutto a mia scelta. Faccio mettere un bel vaso in salotto e scelgo una pianta da bacche per il balconcino. Andandosene, gli chiedo curioso come funziona il sistema. Illuminatosi, il ragazzo, inizia a espormi appassionato il meccanismo delle piantecorrente, è semplice e altamente avanzato nello stesso tempo, mi dice, ogni abbonato ha un contatore elettronico, come quello che le ho installato dietro la porta, questo contatore è collegato con un super computer che tramite la nostra banca dati eroga le piante desiderate ad ogni cliente. Gli chiedo quanto ci vorrà perché crescano le piante, lui mi spiega che il processo è personalizzabile, che posso scegliere il ritmo di crescita desiderato, allora, visto che avevo fretta di riempire la mia casa di primavera (e che vado matto per le bacche), scelgo alta velocità per la pianta del salotto e velocità super per quella da frutto. Il ragazzo digita sul suo tastierino le mie preferenze e se ne va di fretta.

Il giorno dopo ero fuori a fare compere che mi telefona la portinaia, signore, mi dice affannata, deve tornare subito, la signora di sotto al suo balcone dice che le farà buttare giù la porta se quella cosa non smette di sbavare sui suoi panni stesi. Io non capisco, ma lei mi ripete di tornare immediatamente, così senza chiedere oltre corro verso casa. Svoltato l’angolo della mia via trovo un capannello di curiosi davanti al palazzo. Cos’è? Qualcuno chiede. Che schifo! Mormora qualcun altro. Seguendo gli sguardi mi ritrovo io stesso a fissare disgustato proprio il mio balcone, dal quale penzolava allegramente una enorme e bavosa lingua rosa. Dopo qualche istante mi riprendo e corro dentro, dove mi aspetta preoccupata la cara portinaia. Ma cos’è? Le chiedo. Lei mi guarda come per cercare le parole e poi risponde, esce dal vaso del piantacondotto, sembra un lingua umana, ma ha visto quant’è grande? Sarà larga un metro e lunga almeno due!

Corro di sopra e mi accerto di persona. Proprio così, la lingua esce dal vaso sul balconcino. Che guaio, che guaio! Corro al telefono e chiamo la società di piantacorrente, cadono dalle nuvole e mi promettono un intervento rapido. Difatti dopo un’ora il ragazzotto con il cappellino è di nuovo alla mia porta e più sudato del giorno prima. Non saprei, dice, è stranissimo, ma come è potuto accadere. Mi chiede se per caso ho modificato il vaso o toccato il contatore, gli dico che ho passato la mattina fuori casa e che la sera precedente non ho neppure aperto la finestra. Sarà un’anomalia del super computer, dice pensieroso, avrà un bug, potrebbe causare una quantità di guai catastrofica! Io, che ho un’innaturale fiducia verso i super computer, cerco di calmarlo e di farlo riflettere, magari il problema può risiedere altrove, dico. Lui rinsavisce e si mette all’opera, il suo cervello lavora e rumoreggia per le rapide connessioni dei suoi pensieri. Mi fa domande a raffica, ha per caso mai notato dei topi nei paraggi che avrebbero potuto rosicchiare il condotto? No. Potrebbero esserci degli insetti così grossi da intasare il tubo sul suo balcone? No. Ha per caso installato di recente altri servizi corrente, tipo, non so, dentifricio corrente? No. Colluttorio corrente!? No. No. No.

È un dilemma. Lui mi ripete che ha allacciato centinaia di appartamenti e una cosa così non è mai successa. Allora gli chiedo di ripercorrere tutte le azioni svolte per la mia installazione. Lo convinco. Controlliamo tutti i tubi passati nel palazzo, i contatti del contatore, i raccordi sui tubi interni e le prese dei vasi. Niente. Così mi dice, qui è tutto apposto, abbiamo ricontrollato tutta la procedura, ma a quel punto, m’illuminai.

Non è così, dico, l’ultimo passo della procedura è l’invio delle mie preferenze al super computer! Si possono rivedere? Il ragazzotto allora corre al contatore e inizia a ticchettare sui tasti, scorrendo le varie voci impostate, le legge a voce alta. Pianta vaso 1, pianta da interno. Tipo di pianta da interno, pianta floreale. Pianta vaso 2, pianta da frutto. Tipo pianta da frutto, … e qui si ferma con gli occhi sbarrati e la fronte più sudata che mai. Tipo pianta da frutto, bocca. Bocca? Ma doveva essere bacca!

Il poveretto avrà sbagliato a ticchettare per la fretta, complici anche i tasti piccoli e le dita grassocce. Così il super computer, impeccabile, alla richiesta di una pianta da frutto di tipo bocca mi inviò, giustamente, una lingua, che di una bocca è l’unica pianta.

mercoledì 20 maggio 2009

Il nasivendolo

mercoledì 20 maggio 2009 0

E sì, le dicevo, entro nel negozio e mi guardo intorno. Il posto era un po’ buio, ma pulito. Le dicevo, caro lei, che voglio comprare un naso nuovo, già che ne dice? Un bel naso regolare e dritto. Ma perché mi chiede? Perché il mio naso è ormai vecchio e poi non è che mi piaccia granché.

Dunque dopo anni che vivo nel quartiere non c’ero mai entrato da questo nasivendolo, mi guardo intorno e frugo qua e là. No, ovviamente non c’erano solo nasi, c’erano proboscidi e nasi di porco, e ovviamente accessori d’ogni sorta. Che so, sturanasi, coloranasi, filtri e quant’altro. Il negoziante era un arabo, forse pakistano e mi saluta alla maniera socievole degli islamici. Lei dice? Io non penso, il mio naso non è poi così bello. Data un’occhiata mi avvicino al banco e gli spiego che naso mi piacerebbe trovare, lui annuisce, sembra aver capito, cioè magari è un trucco e io non ci casco, così gli dico di averlo già visto altrove un naso così. Ma lui mi dice, lei vuole un naso da principe persiano! Io ci penso ed effettivamente un naso di quello sul mio viso ci starebbe, eccome! Lei non trova? Ma lei mi lusinga, ma come le ho detto il mio naso non mi piace più. Gli dico di sì, che vorrei vederlo, lui mi risponde che non è merce comune, che qui in Italia per proteggere il Made In Italy non li fanno arrivare, ma mi fa capire che qualcosa si può fare. Allora gli dico, senza sbilanciarmi che sul prezzo ci possiamo mettere d’accordo. Lui capisce e chiude la porta, da una botola sul tetto tira fuori una scatola. Proprio così, non vuol credermi? Provi anche lei domani mattina! Mi mostra un naso davvero stupendo, un po’ troppo scuro per la mia carnagione, ma mi spiega che con il coloranaso possiamo adattarlo tranquillamente.

Ma la prego, non insista! Il mio naso non è adatto, che pregi poi avrebbe secondo lei? Gli chiedo dettagli, da dove viene, come è stato realizzato, che pelle è e così via, mi racconta che il naso è originario dell’Iran ed è prodotto proprio nel nasificio dello scià. La pelle è di giovane, una pelle da 20 anni, che ben si adatta a varie manipolazioni quali invecchiamento e abbronzatura, se fosse di più giovane sarebbe più dura e di più vecchio più flaccida, insomma è l’ottimale. Per farla breve mi ha convinto, del prezzo però non le dico, contrattiamo un po’, ma di troppo non vuol scendere. Faccio per prendere il libretto che colgo qualcosa, forse uno sguardo. Sento nell’aria una sensazione strana. Allora mi fermo e gli chiedo di poter vedere il naso l’ultima volta, lui tentenna un attimo di troppo e poi sorridente me lo porge. Bè caro lei, non me lo sarei mai aspettato, controllando attentamente proprio dentro la narice era sta grattata via una scritta, mi sposto alla luce e osservo per bene riconoscendo una scritta a me ben nota. Lo guardo e gli dico che ci ho ripensato, lui che ha capito non insiste e mi saluta.

Che cosa c’era scritto? Lo vuole sapere? Beh se fosse stato quel naso che mi aveva detto, per quale motivo c’era scritto Made In China? Non che abbia qualcosa contro il Made In China, ma un bel naso persiano originale ne vale cento di qualunque altra origine. Come dice? Che sono stato fortunato? Ma perché caro lei? Ah perché il mio naso ha più pregi di quanto io stesso creda? E quali sarebbero, mi dica?

È vero, convengo, forse ha ragione il mio naso oggi e chissà quali altre volte mi ha salvato, fiutando l’imbroglio del nasivendolo.

martedì 19 maggio 2009

Il vestitino di filo

martedì 19 maggio 2009 1

Camminavo a passo svelto, non che avessi fretta, è che mi piace sembrare occupato. C’era un bel sole, ma era anche nuvoloso, cioè era una bella giornata con qualche nuvoletta, ecco. C’erano volantini per terra e i cartelloni della campagna elettorale mi osservano e ciarlavano, ma io andavo di fretta, così da non essere scocciato, perciò mi piace sembrare occupato anche quando non ho impegni. Ero quasi alla fine del viale, che inizia a piovere, e sì, e che pioggia! Iniziano a piovere dei meloni gialli, grossi così e belli maturi! Cominciarono a schiantarsi per strada insozzando di polpa tutto intorno, allora, visto che comunque andavo di fretta perché avevo un impegno, sbuffando visibilmente per la scocciatura, mi riparo sotto la tettoia del bar Shakespeare.

Strofino fragorosamente la scarpe sullo zerbino. Sulla panca, lì accanto, due anziani e un rabbino discutono di politica agitando i bastoni a mo di indici. Entro, vado a sedermi su uno sgabello al banco, il barista cinese non mi vede, ma perché i baristi cinesi non ti vedono mai? Aspetto prendendo una bustina di zucchero. Vicino alla vetrata tre anziane signore incappellate bevono tè e chiacchierano, sotto una sedia un cagnolino con un fiocchetto rosa, cioè una cagnolina. Il barista sta disponendo dei panini su un vassoio, io aspetto. Ad un tavolo un ragazzo con un giubbotto di pelle è accovacciato sulle sue braccia, dorme. Vicino alle signore siede un cieco con bastone e cane guida, ascolta. Saluto timidamente le spalle di un barista, sordo. Al video poker un uomo con indosso un casco da moto nero ha in mano un sacchettino pieno di spiccioli, gioca. Al centro della sala un tavolino tondo con una tovaglia candida, una bambina con un vestitino di filo siede e beve whisky.

Il barista finalmente si accorse di me e gli ordinai un caffè, mi diede le spalle e iniziò a trafficare. Le signore incappellate ridevano e parlavano contemporaneamente, la cagnolina, accucciata sotto la sedia, mostrava la lingua e muoveva la coda sinuosamente, come solo le cagnoline sanno fare. Il cane del cieco sulle zampe anteriori fissava composto la cagnolina, distoglieva lo sguardo di tanto in tanto per gettare un’occhiata al suo padrone. Il cieco stava col mento all’insù e ascoltava. Il barista aspettava che il caffè riempisse la tazzina e io aspettavo il barista. Il ragazzo con la giacca di pelle dormiva, gli anziani fuori discutevano e l’uomo col casco inseriva monete nella macchinetta. La giovinetta con il vestitino di filo vuotò il suo bicchiere di whisky e dispose sul tavolo un puntaspilli e una forbice. Finalmente fu pronto il caffè e versai mezza bustina di zucchero, il barista prese uno strofinaccio e iniziò ad asciugare dei bicchieri. Fare il barista ha i suoi pregi, ma tra i difetti che non potrei tollerare ha che è l’uomo più osservato del locale. Mescolavo il caffè e, ovviamente, osservavo il cinese che sistemava il banco e si affaccendava in mansioni da barista. Caso volle che il peggior incubo del poveretto si verificasse proprio in quel mentre, quando con ancora un bicchiere in mano il suo sguardo si pietrificò verso una pila di piatti da cui spuntava, allegro e pasco, un grosso scarafaggio marrone. La ragazza sfilò un ago dal puntaspilli e vi infilò un filo del suo vestitino, prese in mano un lembo della tovaglia e iniziò a ricamare. Il barista si voltò di scatto verso di me, ma io avevo distolto lo sguardo, tranquillizzatosi che non avevo visto si avvicinò allo scarafaggio brandendo il bicchiere. Piovvero altri tre meloni e gli anziani fuori puntarono i bastoni a cielo.

Sorseggio il caffè spiando la ragazza, ricama in tutta fretta e il suo vestitino si smaglia, rapidamente. Quanto più cautamente possibile il barista prepara il suo attacco, alzando il bicchiere sopra la testa. Le signore hanno appiccicato i nasi al vetro e scrutano il cielo, parlano, c’è una corda da un palazzo all’altro, dicono. Il cane pastore dà un ultimo sguardo al cieco e inizia quatto quatto ad allontanarsi, la cagnolina ha visto e scodinzola platealmente. La ragazza ricama e il vestitino si scuce, una manica ormai non c’è più mostrando una spalla delicata e minuta. Il cinese abbassa il bicchiere, ma lo scarafaggio sfugge scappando lungo il bancone. Io poso la mia tazzina, ormai vuota. Il video poker suona e lampeggia, l’uomo con il casco ha smesso di inserire monete. Per strada arriva un vigile e ferma il traffico. La donna ricama, forse un gambo. Il barista sbatte il bicchiere sul bancone, ma lo scarafaggio è più rapido. Il cieco origlia le signore, c’è un uomo sulla corda, dicono. La seconda manica del vestitino è un ricordo, il collo della donna è scoperto e teso. Il ragazzo dorme. Gli anziani si alzano in piedi per vedere meglio. L’uomo col casco schiaccia i bottoni con i pugni. Lo scarafaggio si ripara sotto un fornetto. Il cane guida ha raggiunto la cagnetta, si odorano. Il vestitino si sfila mostrando una schiena marmorea. Il barista attacca con una paletta. Le signore vociano, è un funambolo, no un giocoliere. I seni si scoprono lentamente e sulla tovaglia appare un petalo. Per strada accorrono dei curiosi. Il cieco si sporge per sentire meglio. L’uomo gioca, lo scarafaggio scatta, i cani si leccano timidamente. E’ un giocoliere funambolo, grida una signora, ma il ragazzo dorme nella sua giacca di pelle. Un altro petalo affianca il precedente e i seni nudi ondeggiano leggermente. Il barista afferra una padella, le donne gridano, le mani alla bocca. Cadono due meloni sulla strada, il cieco tasta l'aria cercando il bastone. Quanti ne ha? Saranno cento! I fianchi candidi sono adesso scoperti. La macchinetta trillante ormai impazza. I cani si leccano adesso goduriosi. Sono cento meloni, ti dico, che volteggiano, è un folle, è un folle, gliene cade un altro! La tovaglia è ormai un enorme giglio ricamato, il cui ultimo petalo ha scoperto anche il ventre. Il barista scaglia sul muro la padella, lo scarafaggio terrorizzato salta sui panini. La donna è ormai nuda ed è una fata, afferra le forbici e ritaglia il tutto. La folla mormora, incita, grida, alternando momento di teso silenzio. Il barista afferra un mattarello, il cieco si sporge e chiama il suo cane, la tovaglia è divenuta un elegante caffettano.

Io mi alzai affascinato e lei fece a sua volta, mi guardò e io morii. Il video poker esplose in trilli e lampeggi vomitando diecimila monete sul pavimento. Le incappellate urlavano un po’ spaventate, il cieco sporgeva pericolosamente dalla sedia. La donna si avvicinava con le forbici in mano, io ero immobile con il petto in fiamme. Il vigile intimava di stare indietro, il cinese concentrato tendeva i muscoli, l’uomo col casco in ginocchio incassava. Mi fu davanti e mi fissò, due occhi neri mi rivoltavano il ventre, afferrò la mia polo e iniziò a tagliarla. L’uomo sfilò il casco e prese a riempirlo, la giacca di pelle respirava lentamente. La donna tagliava adagio e sicura, la lasciai fare non potendo far altro, tagliata la maglia si accovacciò e riprese, tagliando via anche i pantaloni. L’uomo riempito il casco se lo rimise, una doccia di monete lo bagnò beato. I due cani si abbracciarono e con passione si amarono. Il cieco cadde urlante sul pavimento. Le donne esultarono, incredibile, ce l’ha fatta! Il barista colpì, martellando dappertutto.

Rimasi nudo, ardente e felice. La fata era svanita senza che me ne accorgessi. Due cani lì accanto ululavano di piacere, le signore e la folla applaudivano. Mi voltai verso il banco, ma il barista non guardava, correndo e urlando si schiantò su un trave. Un ragazzo dormiva e un casco gridava evviva! Indossai il caffettano e fuggii di corsa, prima di uscire uno scarafaggio mi sfrecciò davanti mescolandosi tra una folla impazzita ed esultate. Aveva smesso di piovere.

Visto che avevo un impegno me ne andai indaffarato, come immerso in contorti pensieri, ma in realtà pensavo semplicemente a quanto è strano quando piove col sole.

lunedì 18 maggio 2009

Caro lei, è un piacere!

lunedì 18 maggio 2009 0
Ma no, le dico che non serve, qui ci scrivo e mi leggo solo io! Non serve che rilegga tutto e porti in bella forma, non sono articoli, non è letteratura! Me sì, si fidi, qui non viene nessuno. Ne sono certo. Lei non crede? Allora me lo dimostri!

Effettivamente qualcuno mi sta leggendo, altrimenti non potrei esistere, in quanto scrittura. Ma sì è vero c’è qualcuno, mi sta leggendo. Cosa ne pensa, dovremmo salutare? Lei non può? A già, scrivo solo io. Allora cosa mi consiglia?

D’accordo sono solo scrittura, allora non devo salutare, ma mi imbarazza un po’, l’essere letto intendo. Fa nulla, in ogni caso non ho interesse a correggere i tempi dei verbi, la punteggiatura e quelle altre cose della buona scrittura. In fondo quando parlo non mi fermo mica a rivedere ciò che ho detto. Ben che meno se penso! Penso come mi viene, lei concorda?

Allora è deciso, qui non si saluta e non si ricorregge.

L'orco bruno

Allora mi sveglio, è tardi, già le sette, apro gli occhi lentamente, apro e chiudo, come si fa la mattina, però stamattina cosa vedo sbucare da dietro l’armadio? Già proprio così, quel maledetto orco bruno. Penso, no! Oggi no! Devo alzarmi, ho da fare. E con la voce roca e la bocca impastata accenno flebilmente un timido Sciò! Vai via! Oggi no.


Lo so, lo so, capita a tutti ogni tanto, di incontrare l’orco bruno, ma no, non sono il classico lamentoso, è che a me capita più spesso. E sì, ce l’ha con me il maledetto. Ma certo, ho preso la sveglia, ho rimandato di 5 minuti l’odioso trillo e mi sono riaddormentato. Ma certo. Ma certo. Stavo facendo pure un bel sogno, se non fosse stato per quel mio impegno, stamattina la visita dell’orco mi sarebbe pure andata bene. Però, sai com’è, ormai è un fastidio, un’antipatia personale, non voglio offendere, ma d’altra parte l’orco passa troppo spesso da me. Odioso orco bruno.


Stavo sognando di essere il macchinista del treno, un treno fatto di una sola carrozza, o meglio del solo locomotore, che per me è una carrozza lo stesso, e facevo a gara con un uomo barbuto, più che altro era una barba d’uomo, che correva accanto alle rotaie su una pista di parquet a bordo di una bicicletta da corsa, rossa, anzi scarlatta! L’uomo e la sua barba correvano come il vento. Io ce la mettevo tutta, regolavo le valvole, pigiavo bottoni e controllavo lancette e lucine, ma restavo sempre due metri dietro l’ultimo pelo della barba svolazzante e, visto che era una barba davvero straordinaria, almeno a 5 metri dall’uomo. Devo superare la barba, pensavo, poi acciuffare l’uomo sarà uno scherzo! Finalmente capii ciò che dovevo fare, bastava … triiiin! Il maledetto trillo della sveglia.


Ah sì, apro gli occhi, scruto la stanza, se ne sarà andato? Ma no! Ma no! L’orco bruno ce l’ha proprio con me. Rassegnato prendo il telefono e scrivo al tizio del mio impegno “Ciao scusa, ritardo … purtroppo è passato l’orco bruno. A dopo”. Invio. Basta uno sguardo e l’orco capisce, balza giù dall’armadio e mi salta addosso.


La barba è una bandiera battente, scossa dal vento trema rapidissima, è così tesa che sembra solida, i polpacci dell’uomo sembrano scoppiare, ma anche se non riesco a vedere il suo viso, sono sicuro che sia rilassato e beffardo. Stupida macchina, corri maledetta, forse risparmiando un po’ di corrente, spengo le luci interne, i fari e altri apparecchi. Sì, sto accelerando, sì, mi avvicino. Ma in un attimo sbuca da un albero l’orcaccio e con due balzi scavalca le rotaie e zompa addosso alla barba. Mentre è in volo lo vedo, il disonesto, cambia colore e diventa rosso, anzi scarlatto. Si è sostituito alla bicicletta. Che fa il dispettoso? Aiuta il mio avversario e in un attimo mi stacca, lo perdo quasi di vista. È normale, sì lo so, ma quell’orco ce l’ha con me e non si limita a farmi i soliti dispetti da orco bruno, mi scuso per il gioco di parole, ma ne combina di tutti i colori, d’altra parte è un orco bruno, lo so. E così ce la metto tutta e inizio a smontare il locomotore, stacco tutto e butto via, mi alleggerisco, mi tolgo i vestiti e resto nudo, butto via le leve e quadri comando, via i finestrini e il sedile. Accelero e li prendo, l’uomo, la barba e l’orco – bicicletta. Vedo il traguardo, è a un miglio. Siamo testa a testa, ma loro hanno un metro o forse più di vantaggio. Mezzo miglio e la situazione è invariata, trema tutto, sto per bruciare il motore. Un quarto di miglio e le gocce di sudore del rivale si scagliano contro il mio parabrezza, cede anche lui. Solo trecento piedi, loro sono ancora davanti, non riuscirò a vincere, diavolacci. Ma ecco, ecco che l’orco la combina, che dispetto. Con un uncino acciuffa la barba dell’uomo barbuto e la infila tra gli ingranaggi della bici. Oh poveretto, che caduta. Taglio il traguardo da solo, furioso. Scendo dal treno e corro verso l’uomo, ormai senza barba. Mi guarda, è nero, lo so il sogno e mio, ma mi scusi è colpa dell’orco. Ma l’uomo si alza e se ne va. Guardo la bici barbuta e chiedo, hai finito? La barba si alza, adesso scarlatta come la bici e ridacchia, maledetta.


Mi sveglio che sono le dieci, un’altra giornata persa. Sì lo so capita a tutti ogni tanto un orco bruno, ma a me capita troppo spesso. Buonanotte.

domenica 17 maggio 2009

il Cyrano

domenica 17 maggio 2009 4
Vorrei un luogo dove poter scrivere, dove solo io posso leggermi, sì è così, mi creda, ma è una bugia. L’ho appena deciso, anzi no, però oggi è un giorno speciale, infatti per strada osservando i miei passi ho creduto che fossero sicuri, finalmente, ma lo so, non me lo dica, è una bugia anche questa.
Cerco un luogo dove poter essere io, non ho bisogno di vendermi, vorrei un luogo per me. Un gatto dorato, mi osservava, sul marciapiede, rallento per non spaventarlo e lo raggiungo, scapperà, penso, è un gatto di strada, ma lui era più sicuro di me e rimase lì a guardami passare, più di così non so mentire, si fidi.
Vorrei un luogo come una scatola di cartone, immensa e invisibile, da riempire di gatti e di foglie, forse qualche pietra e giusto un paio di parole, ovviamente anche questo è mentire, ma mi lasci fare. Oggi un donna, non troppo giovane e non troppo vera, camminava lentamente, appoggiata al suo bastone, aveva una casacca leggera e colorata, capelli lunghi e un seno piccolissimo, una gonna scarlatta e un viso triste, potrei averla amata, pensai, che imbroglio, non crede? In questo scatolone segreto, solo mio, metto anche la donna e il suo bastone, le piace come viene? Metto su qualche altra fantasia, abbia pazienza, qualche altro rigo.
Svoltato l’angolo ho trovato un osso, sì un osso, un osso di cane, rosicchiato, che bello, pensai, un cagnone peloso si sarà divertito un mondo, e va bene, questo l’ho inventato, ma fa parte del gioco, non è d’accordo? L’osso lo metto nel mucchio, perché voglio un luogo dove metter tutto.
Dopo un po’ ho incontrato un amico, cioè un tale, con cui abbiamo scherzato e discusso, discusso di questioni della vita, come si fa tra amici intimi, sì con quel tale è nata un’amicizia, profonda direi, chissà come si chiamava, le ho detto che era un mio amico, quel tale, sì ovviamente non è così, non lo conoscevo. Nella mia scatola non metto l’amicizia, non serve, in questo luogo voglio star solo e poi, a parte quel tale, non ho molti amici.
Infine tornando, ho pestato una merda, sì davvero, una merda di cane, sarà stato il cagnone dell’osso, ma poverino, non è colpa sua e neppure del padrone che la paletta l’aveva, ah per inciso, il padrone è quel tale, il mio amico, però all’atto di raccoglierla, la merda, il tale è stato trascinato via dal cagnone, che aveva visto il gatto dorato, ma il gatto spocchioso la sapeva lunga e stavolta si è spostato, con un balzo è saltato addosso alla sua padrona, che posato il bastone si riposava sulla panchina lì vicino, e sì chissà quando l’ho amata, quella donna. Le dicevo che la colpa è mia che ho smesso di guardare i miei passi, mi sentivo sicuro ed invece era una menzogna.
Insomma il mio luogo sarà una scatola, dove metto qualche pietra, una foglia, la donna, l’osso e il gatto e metto pure lei, ci vuol venire? Lei mi serve, perché mentire a se stessi non si può, ma a lei posso dire ciò che mi pare, non crede?
 
ilcyrano